RIPRESA POST COVID
Produttività vo cercando...

Siamo all'alba di un nuovo ciclo economico contrassegnato dall'aumento della produttività? Così pensa Christine Lagarde, e così concordano anche Spence e Manyika. Ma solo a certe condizioni...

Paola Pilati

«La pandemia potrebbe accelerare la crescita della produttività del lavoro di circa l’1% l’anno entro il 2024», ha annunciato la presidente della Bce Christine Lagarde. La produttività è da tempo uno dei problemi più spinosi dell’economia: è stata trainata dalle rivoluzioni tecnologiche che ne hanno contrassegnato la crescita per lunghi periodi, accompagnati dalla crescita dei consumi, seguiti però da periodi di fiacca come è stato dopo la crisi finanziaria globale scoppiata nel 2008. Una fiacca che è più o meno durata un decennio, e che con la pandemia ha toccato il minimo.

Ora Lagarde vede il ritorno di una produttività vigorosa. Troppo ottimista? Sull’andamento della produttività si sono pronunciati di recente il premio Nobel Michael Spence e il capo del McKinsey Global Institute James Manyika, andando nella stessa direzione della Lagarde (https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2021-06-22/better-boom?). Sostenendo cioè che da uno dei momenti più critici vissuti dall’economia può nascere un’era di prosperità. Questo perché la pandemia ha innescato processi di riorganizzazione all’interno delle aziende e l’adozione di tecnologie digitali che potrebbero accelerare la crescita della produttività e portarla a raddoppiare il passo rispetto al dopo-crisi finanziaria, fino all’1 per cento indicato da Lagarde. Persino con picchi di due punti di crescita ogni anno in settori come la sanità, le banche, le costruzioni, la farmaceutica, il commercio.

Ma tutto questo non arriverà senza sforzo e gestione oculata delle risorse. Perché, ammoniscono i due autori, molto dipenderà da come i governi sapranno pilotare l’uscita dalla pandemia, da come sapranno gestire i programmi di ripresa e la sospensione degli stessi in vista di un ritorno alla normalità.

Che lo scenario, per quanto ottimistico, non dia nulla per scontato, lo dimostra il caso Italia. Da noi infatti la previsione di crescita si è spinta a immaginare un boom dl Pil anche oltre il 5 per cento, la produzione industriale è decollata, l’export pure, ma il vero risveglio resta appeso alla ripresa dei consumi e della domanda interna con la mobilitazione dei risparmi delle famiglie accumulati durante il lockdown. Che invece ancora non si sono manifestate appieno.

Oltretutto la storia recente del legame tra produttività e innovazione tecnologica non è sempre stato lineare. Prima che la rivoluzione ICT producesse degli effetti pervasivi nell’economia, sufficienti a spingere la produttività un po’ in tutti i settori (come è stato negli Usa tra il 1995 e il 2005, ricordano gli autori), le innovazioni legate all’introduzione del computer ci hanno messo del tempo a essere adottate non solo dalle grandi, ma anche dalle piccole imprese. Dopodiché la Grande crisi finanziaria ha congelato il clima ovunque, rimettendo la crescita della produttività su un binario morto.

Di fronte alla nuova ondata di innovazioni disponibili, quelle più recenti legate all’intelligenza artificiale e al big data, solo un manipolo di imprese ne ha colto subito il potenziale, lasciando gli altri – la maggioranza – indietro. E rendendo così di nuovo la crescita della produttività un’araba fenice. Nel 2015, stimano i due autori, gli Stati Uniti avevano raggiunto solo il 18 per cento del loro “potenziale digitale”, l’Europa ancora di meno, cioè il 12 per cento.

Che cosa è successo durante il Covid? Molte imprese hanno adottato tecnologie digitali a passo veloce, molto più veloce di quanto non facessero prima, per esempio aprendo un canale commerciale per raggiungere i propri clienti online. Se fino a prima della pandemia si pensava che negli Stati Uniti l’e-commerce avrebbe pesato per il 20 per cento delle vendite nel 2024, ora ha già raggiunto il 33 per cento.

Soprattutto, le imprese non si sono limitate ad adottare le nuove tecnologie digitali, ma le hanno anche calate in una nuova organizzazione del corpo aziendale nel suo complesso, dal lavoro alla logistica. È questo doppio ingrediente che renderà possibile la ripresa della produttività di cui oggi si favoleggia: di nuovo, perché si realizzi, la condizione è che dovrà contagiare l’intero sistema produttivo, e non rimanere un fenomeno ristretto alle aziende superstar.

Che possibilità ci sono che la produttività faccia cilecca come in passato, per colpa della Grande crisi? Qui interviene la responsabilità dei manager. Secondo un sondaggio fatto a fine 2020 presso gli executive in Nordamerica e in Europa, il 75 per cento di essi è deciso a mettere in campo investimenti accelerati in nuove tecnologie entro il 2024. In questa corsa gli Usa fanno da apripista, creando nuovi business e dimostrandosi anche nel 2020 la parte più dinamica del mondo occidentale (mentre in Francia, Uk, Germania, l’anno del Covid ha congelato tutto, e in Italia e Spagna ha ridotto la nascita di nuovi business del 15 per cento).

Resta l’incognita della ripresa della domanda. E qui la palla passa ai governi e ai loro piani di spesa. Biden ha già messo sul piatto un piano da 1,9 trilioni di dollari, l’Europa il suo da 900 miliardi di euro. Ma quanto potranno durare questi interventi? E con quale efficienza potranno dispiegare i loro effetti?

Spence e Manyika lanciano infatti un allarme. Poiché il 60 per cento della crescita di produttività prevista deriverà dalla riorganizzazione che le imprese adotteranno per tagliare i costi, tra cui quello del lavoro, il rischio è che la produttività si farà a spese dei lavoratori, mettendo sotto pressione occupazione e stipendi. Cioè producendo un ciclo vizioso e non virtuoso di crescita.

Il loro consiglio finale? Ce n’è uno per ciascun protagonista della ripresa. Alle grandi imprese superstar, le prime capaci di cavalcare le tecnologie, gli autori consigliano di rafforzare il loro ecosistema di business, supportando le piccole imprese. Ai politici, di rivedere le regole della competitività e quelle delle procedure fallimentari per consentire la selezione dei più forti. Ai governi, consigliano di investire in ricerca e sviluppo. A tutti, di lavorare avendo presente il medesimo obiettivo.

Quale? Quello di far crescere il tessuto produttivo, in modo che, quando la spesa pubblica dovrà tornare nei ranghi e finiranno i grandi programmi di sostegno, sarà il business, l’insieme dei soggetti economici, a fare la sua parte. Producendo ricchezza con ricadute sempre più ampie, ma anche riducendo le ineguaglianze e la disoccupazione. Toccherà ai governi creare l’ambiente favorevole a renderlo possibile, incentivando con crediti fiscali l’investimento in capitale umano, e spostando il carico dal reddito da lavoro al reddito da capitale.

La crescita della produttività, però, non dice tutto di una società economicamente armoniosa. Perché non cattura quella dimensione importante che è il benessere individuale e collettivo che una società che esce dalla pandemia si attende e merita. Di più: il sistema attuale di misurazione della produttività non ingloba il climate change, che nell’immediato potrebbe anche condizionarla in maniera negativa, ma lavora nella direzione di quel benessere collettivo.

Insomma, la nuova era del dinamismo post-Covid e la produttività che porta con sé è dietro l’angolo, dicono i due economisti, basta che noi ci dimostriamo pronti a coglierla sapendo che non è un pasto gratis. E che sta ai governi e ai protagonisti del mondo del business far sì che si materializzi e che duri a lungo.