Procrastinare è sempre scegliere
Enrico Maria Cervellati
Cervellati

“Proprio qui è arrivata l’idea geniale di Benartzi e Thaler. Ma per scoprirla dovrete aspettare il prossimo articolo!”

Così concludevo il mio ultimo articolo. Questo che state leggendo sarebbe dovuto uscire a breve distanza dal precedente, ma la mia procrastinazione ci ha portato ad Halloween…

Proprio di procrastinazione voglio scrivere e di come combatterla, anzi di come usarla – paradossalmente – per raggiungere i nostri obiettivi. L’idea di Benartzi e Thaler si basa proprio su questo concetto, cioè sull’evidenza che combattere la naturale procrastinazione umana è davvero difficile. Meglio dunque assecondarla, anzi sfruttarla a nostro vantaggio. 

A fine anni Novanta i due economisti comportamentali convincono un’azienda ad attuare un sostanziale cambiamento sull’opzione previdenziale che proponeva ai propri dipendenti. Era il 1 aprile 1998, ma non era un pesce d’aprile… l’azienda decide che da quel giorno tutti i neo-assunti sarebbero stati iscritti in automatico al piano 401(k), una delle forme più utilizzate negli Stati Uniti per la previdenza privata. Prima i lavoratori potevano scegliere o meno tale opzione, erano loro a decidere, mentre ora era l’azienda a decidere per loro, iscrivendoli automaticamente al piano. 

Certamente una decisione paternalistica, ma che lasciava ai lavoratori l’opzione di uscire da tale piano e, dunque, di rinunciare ad accantonare per la pensione privata. In gergo comportamentale, questo tipo di impostazione viene definita “paternalismo libertario” perché si tratta sì di un approccio paternalistico, che però lascia al lavoratore la libertà di “optare fuori”, cioè uscire dal piano in cui è stato iscritto in automatico. Perché allora farlo? Beh, qui entra in gioco la procrastinazione. 

È vero che si lascia la possibilità di uscire dal piano, ma le persone tendono a procrastinare tale decisione e, nel frattempo, rimangono iscritte. Il tempo passa e continuano a rimanere iscritti. I risultati furono evidenti: prima dell’iscrizione automatica il 57% dei dipendenti aveva deciso volontariamente di iscriversi al piano 401(k) – una percentuale fantascientifica per gli standard italiani, ma negli Stati Uniti senza pensione privata davvero si rischia di finire sotto un ponte una volta andati in pensione, in quanto la social security, cioè la pensione pubblica è bassissima – mentre dopo la decisione aziendale il tasso di partecipazione al piano era salita all’86%! Chi decideva veramente era il 14% rimanente, che sceglieva di abbandonare volontariamente il piano, il resto dei lavoratori, almeno in parte, rimanevano iscritti perché procrastinavano la decisione di un’eventuale uscita. 

Se il tasso di partecipazione alla previdenza privata era aumentato, quello di contribuzione – cioè la percentuale di stipendio accantonata nel piano – era scesa. Prima dell’iscrizione automatica infatti il 30% dei lavoratori aveva deciso di accantonare il 6% del proprio stipendio. La scelta era logica perché fino a quel livello l’azienda raddoppiava il contributo, cioè se il lavoratore dedicava il 6% del proprio stipendio alla pensione privata, l’azienda metteva un altro 6%, facendo arrivare il contributo al 12%. 

Se invece il lavoratore accantonava solo l’1% allora l’azienda metteva un altro 1% e il contributo totale arrivava al 2%. Quindi, per chi poteva permetterselo, era razionale accantonare il 6%, soglia massima per cui l’azienda avrebbe raddoppiato il contributo. Dopo l’iscrizione automatica invece il 74% dei neo-assunti aveva un tasso di contribuzione del 3%. 

Il motivo è semplice, era la percentuale decisa dall’azienda, cioè l’opzione di silenzio-assenso (o di default). L’azienda continuava a raddoppiare il contributo fino al 6%, ma la forza dell’opzione di default faceva sì che tre lavoratori su quattro non cambiassero decisione. Da un lato quindi l’azienda era riuscita con l’iscrizione automatica ad aumentare la partecipazione alla previdenza privata, che era l’obiettivo che si era prefissa, ma dall’altro il tasso di contribuzione medio era sceso drasticamente. 

Purtroppo questo non fu l’unico aspetto negativo, ci fu infatti anche un effetto sulle scelte in termini di “asset allocation” cioè sulla percentuale di azioni e obbligazioni in cui il lavoratore decideva di investire il proprio risparmio previdenziale. Prima del cambiamento, in media i lavoratori investivano il 75% in azioni, il 18% in obbligazioni e il restante 7% in liquidità (strumenti del mercato monetario, cioè obbligazioni a breve termine). E dopo? Quasi il contrario! 81% in liquidità, 3% in obbligazioni e il 16% in azioni. 

Cosa era accaduto? Semplice.. l’opzione di default scelta dall’azienda era che il 100% dei risparmi previdenziali dei propri lavoratori fossero investiti in liquidità. I neo-assunti non avevano un’avversione al rischio diversa dai colleghi assunti precedentemente, semplicemente procrastinavano la decisione di cambiare l’asset allocation decisa per loro dall’azienda. Questo esempio da un lato fa capire la forza della procrastinazione nell’ancorare le persone alle scelte di default, dall’altro ci spinge a ragionare sull’importanza di studiare quali debbano essere le migliori opzioni di silenzio assenso.

Dal 1998 ovviamente le cose si sono evolute e si parla infatti ormai di “architettura delle scelte” e sono nate nuove professioni ad esse associate come quella del cosiddetto “architetto delle scelte”. Da questa e altre esperienze è nata l’idea del nudge, cioè della cosiddetta “spinta gentile” che tende a indirizzare le persone a raggiungere determinati obiettivi (per esempio la pensione) tramite soluzioni automatiche, che però lasciano loro la libertà di “optare fuori”. Nudge è anche il titolo di un famoso libro di Richard Thaler e Cass Sunstein del 2008 che è valso a Thaler il Nobel per l’Economia nel 2017 e, ancora prima, a Sunstein un incarico da Obama come capo dell’OIRA, l’Office of Information and Regulation Affairs, con un mandato talmente ampio da poter regolare una vista gamma di attività negli Stati Uniti. 

Benartzi, invece, ha pubblicato nel 2012 un libro intitolato SMART acronimo di Save More Tomorrow (“risparmia di più domani”). L’idea alla base dell’approccio Smart (che in inglese significa sveglio, intelligente, brillante) è che se chiedi alle persone di risparmiare più oggi per consumare di più in futuro, per esempio una volta in pensione, spesso non lo fanno, perché significa sacrificare il consumo odierno e le persone preferiscono consumare di più oggi che in futuro. Se però tendiamo a dare meno importanza al futuro che al presente, allora anche le cifre che risparmiamo in futuro ci peseranno di meno di quelle accantonate oggi. Di qui l’idea di non chiedere ai lavoratori di risparmiare più nell’immediato, ma di vincolarsi a un piano che aumenti il tasso di contribuzione quando, in futuro, si otterrà un aumento di stipendio. Quando arriverà l’aumento di stipendio, spesso non si ricorderà più che una parte aggiuntiva andrà per la pensione e comunque essendo contestuale all’aumento di stipendio il lavoratore vedrà come effetto netto che gli entrano più soldi in tasca. Questa idea ha fatto sì che nel giro di pochi anni i lavoratori che aderivano al piano avessero quadruplicato il loro risparmio pensionistico.

L’iscrizione automatica e il piano Smart sono solo alcuni esempi di “finanza comportamentale 2.0” o “in azione” cioè soluzioni pratiche a problemi molto rilevanti, che sfruttano a beneficio delle persone quelli che normalmente sono considerati errori comportamentali o limitazioni, come per esempio la procrastinazione.

 

Occorre sottolineare come il paternalismo libertario sia stato duramente criticato da chi pensa che si dovrebbero lasciare le persone completamente libere di decidere, anche a costo che alla fine prendano decisioni sbagliate e che comunque è quanto meno indelicato che ci sia qualcuno che a tavolino pensa ad “architettare” le opzioni di default in molti ambiti di scelta, non a caso Sustein fu a suo tempo definito “l’uomo più pericoloso d’America”. 

Il tema ovviamente va sviscerato e presenta sia vantaggi che svantaggi, ma non bisogna dimenticare che comunque un’opzione di silenzio-assenso c’è sempre, in ogni decisione, e dunque, anche se non ce ne accorgiamo, le nostre scelte sono da essa condizionate quando procrastiniamo e dunque non agiamo. Potrebbe dunque non essere un’idea malvagia riflettere su come architettare, in senso buono, tali opzioni per cercare di migliorare la vita delle persone. Non a caso Thaler ripete continuamente “nudge for good”, cioè usare le “spinte gentili” per il bene, non per il male. 

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