FLEXICURITY
Politiche attive del lavoro, “whatever it takes”

La flessibilizzazione del lavoro è ormai una caratteristica del sistema produttivo, e imbrigliarla significherebbe solo minori opportunità di lavoro. Ma deve avere come contraltare un sistema serio rivolto ai disoccupati.Peccato che oggi siamo ancora a discutere di come far decollare l’altra faccia della flexicurity

Serena Caparra

Il ruolo centrale svolto dai centri per l’impiego consiste nel favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, contribuendo alla riduzione della disoccupazione frizionale. 

L’importante e rivalutato compito riconosciuto a tali strutture – coordinate a livello regionale – è “sulla carta” già da diversi anni. Ci si riferisce, difatti, al d.lgs. n. 150/2015 interamente dedicato alle politiche attive, il quale si colloca nell’ambito della più ampia riforma del lavoro denominata Jobs Act. Con pregi e difetti si tratta della riforma di più ampio respiro nel settore lavoristico degli ultimi anni, strutturata in un’ottica di integrazione dell’Italia verso modelli europei.

La flexicurity del modello danese, importata nel nostro Paese (sempre “sulla carta”), si propone l’obiettivo di rendere meno rigido il mercato del lavoro in entrata e in uscita, liberalizzandolo, con tutti i limiti del caso. 

In tale ottica, il Jobs Act abroga la disciplina del lavoro a progetto, elimina le causali dai contratti a tempo determinato (istituto, questo, sottoposto a nuovo irrigidimento da parte del Decreto Dignità nel 2018) e rende “meno gravosi” i licenziamenti per i datori di lavoro. L’obiettivo dominante è, dunque, quello di rendere fluido e facilmente accessibile il mercato del lavoro e di incentivare gli investimenti. 

Flexicurity non vuol dire però solo produrre norme che accompagnino la flessibilizzazione del mercato del lavoro, ma significa soprattutto garantire il reimpiego delle persone che, per un motivo o per un altro, non sono momentaneamente impiegate in un’attività lavorativa.

Significa un sistema di politiche attive estremamente efficiente, dotato di strutture dedicate e di personale specializzato a cui chi è in cerca di occupazione può rivolgersi, trovando risposte concrete. Risposte che consistono nella possibilità di “reinventarsi” acquisendo nuove competenze o rafforzando quelle già acquisite attraverso investimenti in formazione. Oppure, ancora, opportunità (soprattutto per i più giovani) di affacciarsi al mondo del lavoro tramite esperienze di tirocinio o con contratti di apprendistato.

Si tratta, in sostanza, di favorire, il c.d. matching domanda – offerta indirizzando il capitale umano verso ciò che è richiesto dal mercato del lavoro, accrescendo così l’efficienza del sistema. Il cosiddetto “posto fisso” rimane ancora un sogno per molti. Sognare non è un peccato ma il mercato del lavoro non è più lo stesso rispetto a 30 anni fa. Dobbiamo, che ci piaccia o no farcene una ragione.

La nuova sfida è quella di essere duttili, flessibili e disposti al cambiamento professionale, ma si deve essere supportati nel fare ciò. Stato, Regioni e Province autonome, ognuno nel suo alveo di competenza, devono farsene carico, attuando pienamente i principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 4 Cost.

La flessibilizzazione del lavoro è ormai una caratteristica immanente nel sistema produttivo, le leggi non possono ingessarla e imbrigliarla perché ciò significherebbe solo minori investimenti e minori opportunità di lavoro.

Ma il contraltare deve necessariamente essere quello di creare un sistema serio e solido (di natura pubblica e privata tramite gli accreditamenti) rivolto ai disoccupati, ai lavoratori beneficiari di strumenti di sostegno al reddito, agli occupati in cerca di nuova occupazione, agli inoccupati, ai giovani.

Anche l’attuazione piena del principio di condizionalità, cioè quello secondo cui l’erogazione da parte del soggetto pubblico di sussidi o servizi è subordinata al compimento da parte del beneficiario di comportamenti attivi volti ad uscire dallo stato di bisogno per cui il sussidio è stato erogato, passa proprio attraverso un solido rafforzamento delle funzioni svolte, soprattutto, dai centri per l’impiego. Diversamente, i sussidi per la disoccupazione e più in generale per il sostegno al reddito diventerebbero solo forme di assistenzialismo, senza essere di supporto alla crescita del Paese. 

Invero, già in quella “lettera segreta” della BCE capitanata all’epoca da Trichet e datata 5 agosto 2011 si raccomandava al Governo italiano di adottare una riforma sul sistema di assicurazione dalla disoccupazione e sulle politiche attive per il mercato del lavoro. E oggi, nel febbraio 2021, siamo ancora qui a discutere di far decollare l’altra faccia della flexicurity.

Difatti, come ha sottolineato anche il Presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo discorso per ottenere la fiducia al Senato della Repubblica “centrali sono le politiche attive del lavoro. Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati. Vanno anche rafforzate le dotazioni di personale e digitali dei centri per l’impiego in accordo con le regioni. Questo progetto è già parte del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza ma andrà anticipato da subito“.

Al solito, le tempistiche nell’attuazione delle normative sono fondamentali nella realizzazione della triade “efficienza-efficacia-economicità”, ma il nostro Paese raramente si dimostra leader in questo senso e ciò ha – in generale -un forte peso nella fiducia che i cittadini ripongono nelle istituzioni.

Basti pensare che il “Piano straordinario di potenziamento dei centri per l’impiego e delle politiche attive del lavoro” è datato aprile 2019, ossia di quattro anni dopo rispetto al d.lgs. n. 150/15, ed è stato messo in campo in relazione alla misura del reddito di cittadinanza. Inoltre nel maggio 2020 sono state adottate delle modifiche con cui si prevede un incremento dell’organico dei centri per l’impiego di circa 11.600 operatori anche al fine di implementare i c.d. LEP (livelli essenziali delle prestazioni) dei servizi per il lavoro, garantendo standard qualitativi e quantitativi su tutto il territorio nazionale. 

Tra le Regioni che hanno bandito i concorsi per le assunzioni del personale per il rafforzamento dei centri per l’impiego (o delle agenzie regionali per il lavoro, ove presenti) vi sono Toscana, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia, Liguria, Lazio, Campania, Marche e Puglia (quest’ultima, peraltro, ha avviato una selezione di personale solo a tempo determinato). Mancano all’appello tante Regioni del Centro sud e in molte di quelle summenzionate le procedure selettive sono ancora in corso. La pandemia ha rallentato tutto, tra cui, in generale, il settore dei concorsi pubblici nel quale non si è stati in grado di innovare le modalità di svolgimento virando verso forme snelle e digitali. 

Il rilancio dei centri per l’impiego e più in generale delle strutture deputate alle politiche attive – attuato (si auspica) anche con efficaci campagne di comunicazione – è una sfida che il nostro Paese non può permettersi di non cogliere a piene mani, “whatever it takes”.