Il Centro Studi di Politica Economica e Monetaria CeSPEM dell’Università Cattolica di Piacenza in collaborazione con la Rivista Economia Italiana (fondata dal compianto economista piacentino Mario Arcelli) e con la Fondazione di Piacenza e Vigevano e l’Associazione Italiana Dottori Commercialisti (AIDC) ha organizzato un dibattito sugli effetti della legge di bilancio 2019 attualmente all’approvazione del Parlamento. «Abbiamo voluto orientare il dibattito sulla Legge di Bilancio in relazione all’impatto che avrà sulle imprese e sul lavoro», ha ricordato il prof. Francesco Timpano, direttore del CeSPEM, «invitando un panel di esperti particolarmente vocato su questo tema», coordinato da Filiberto Zovico di Italypost che ha recentemente portato a Piacenza il suo Festival Città Impresa ed ha promosso la ricerca sulle imprese champions dell’economia italiana.
Base di discussione l’anteprima del Rapporto CER, Centro Europa Ricerche, che mette in luce come l’esigenza di discontinuità perseguita dal governo per aumentare crescita e occupazione venga declinata nei termini di un aumento dell’indebitamento netto. Questo per il 2019 viene riportato ai livelli massimi dal 2014, con un incremento di 12 miliardi rispetto al dato del preconsuntivo 2018. Stefano Fantacone, direttore del CER, ha messo in luce alcune incoerenze di questa manovra, peraltro criticata profondamente dai più autorevoli osservatori economici (FMI, OCSE; Banca d’Italia) e respinta dalla Commissione UE. “Una simile scelta costituisce un’effettiva rottura rispetto al percorso seguito nella precedente legislatura. Non ci si limita, infatti, a deviare da futuri obiettivi di avvicinamento al pareggio di bilancio, come si è fatto anche nel passato quinquennio, ma si decide di aumentare il livello del deficit rispetto a un risultato già conseguito”.
Tipicamente, osserva Fantacone, “un aumento del disavanzo pubblico sospinge un incremento della domanda, ma innesca al contempo un rialzo dei tassi di interesse. Lo spiazzamento che ne deriva sulla spesa privata sensibile al livello dei rendimenti (investimenti, beni durevoli, abitazioni) riduce l’impulso moltiplicativo associato all’aumento della domanda pubblica e la variazione del Pil può così rimanere sensibilmente al di sotto delle attese iniziali. Per avere piena efficacia, l’espansione del bilancio pubblico dovrebbe quindi realizzarsi in un contesto di limitato rialzo dei tassi e di contestuale rafforzamento della fiducia degli operatori”.
Nessuna di queste condizioni sembra al momento realizzarsi. Da un lato gli investimenti pubblici si riducono e le stesse previsioni della NADEF non registrano l’auspicato aumento della produttività. Dall’altro, la composizione della manovra stessa presenta quattro incoerenze destinate a produrre un aumento dei tassi di interesse e quindi a vanificarne gli effetti attesi. Vediamole.
Clausole di salvaguardia
Nella passata legislatura, le clausole di salvaguardia, pur lasciando invariati i saldi complessivi di bilancio, hanno però svolto un ruolo di disciplina indiretta, nel senso che la loro disattivazione veniva finanziata nella manovra. Questo vincolo viene ora annullato, poiché la disattivazione delle clausole si può tradurre ora in maggiore deficit. Nelle aspettative dei mercati, ne consegue una perdita di credibilità degli obiettivi di indebitamento; si tratta di un fattore che spinge in direzione di un aumento dei tassi di interesse sui titoli di debito pubblico italiani.
Aumento della spesa corrente
Nel 2019, l’aumento programmatico della spesa corrente si concentra per l’84% su due sole voci: reddito di cittadinanza e quota 100 per le pensioni. Il finanziamento in deficit esplicita il fatto che il paese non ha le disponibilità per varare queste misure, non almeno nelle dimensioni indicate. In assenza di una riscrittura del patto sociale fra i cittadini, è alto il rischio che le due misure rivelino un problema di sostenibilità finanziaria. Un’incertezza scontata dai mercati anch’essa sotto forma di aumento dei tassi.
Misure dal lato dell’offerta
Il fatto che la manovra sia monopolizzata da due soli interventi significa anche che la sua articolazione è piuttosto scarna, mentre le ultime manovre si distribuivano su una più ampia gamma che, da un lato, era impostata in modo da non determinare un aumento del deficit effettivo e, dall’altro, assumeva una chiara natura espansiva, agendo contestualmente dal lato dell’offerta e della domanda e innescando molteplici canali di crescita. La scelta di concentrarsi su due soli provvedimenti bandiera è invece un fattore di depotenziamento della manovra di oggi e accresce i dubbi sull’opportunità di consentire un ampliamento del livello di disavanzo.
Interventi a sostegno del sistema produttivo
Un ultimo punto da sottolineare riguarda il sostanziale indebolimento che la manovra apporta agli interventi di sostegno del sistema produttivo. Nello specifico: si riducono di un miliardo nel biennio 2020-21 le risorse appostate per l’iper-ammortamento; il super ammortamento non viene rifinanziato per i beni strumentali tradizionali; lo stanziamento assegnato al credito d’imposta per ricerca e sviluppo si riduce di 600 milioni complessivi nel 2020-21, Si rischia così di disarticolare una serie di incentivi che hanno mostrato un’elevata efficacia, per il recupero degli investimenti in macchinari e attrezzature (+8,8 per cento nel 2017 e +13,7 per cento nei primi due trimestri del 2018).
L’ampio dibattito che è seguito ha posto in luce le implicazioni della manovra sull’attività produttiva, sullo spread, sulle imprese innovative e su possibili soluzioni tecniche alla riduzione del carico fiscale.
Alberto Rota, presidente di Confindustria Piacenza, si è soffermato sul depotenziamento degli incentivi all’investimento. Gli effetti si fanno già sentire su una zona-test come quella piacentina: mentre tutti gli indicatori dell’economia locale (rilevati su un campione di imprese con circa 3 miliardi di euro di fatturato e circa 9.000 addetti) erano in crescita nel primo semestre (fatturato complessivo +9,20%, fatturato interno +6,81%, fatturato estero +11,94%, occupazione +0,90%), Rota ha sottolineato come ci sia un diffuso rinvio degli investimenti a fronte della riduzione degli incentivi e soprattutto dell’incertezza che la manovra sta determinando sui mercati finanziari.
Incertezza rilevata dal termometro dello spread, ha ricordato Luca Bagato, docente dell’Università Cattolica e Head of Fixed Income in Borsa Italiana Spa. È necessaria un’azione rapida per stabilizzare le aspettative. I fondamentali dell’economia italiana sono solidi, ma se continua l’aumento dello spread la crisi di fiducia può tradursi in un problema di liquidità con conseguenze gravi.
Sui fondamentali è tornato l’economista Paolo Guerrieri, presidente dell’Advisory Board di Economia Italiana, ribadendo che l’economia è sana. È giusto e doveroso che i politici cerchino di mettere in pratica le proprie promesse elettorali, ma questo comporta comunque delle scelte di politica economica per mantenere i propri impegni. Le scelte devono essere coerenti con i vincoli economici e con i trattati internazionali che l’Italia ha l’obbligo, anche costituzionale, di rispettare. Scelte che implicano il ridisegno del sistema del welfare – come il reddito di inclusione o quota 100 – e dovrebbero avvenire in presenza di un chiaro processo redistributivo e non di un finanziamento in disavanzo.
Gli investimenti e la possibilità di fare impresa escono dunque penalizzati dalla manovra, come ha messo in risalto anche Carlo Brunetti di Italian angels for growth. Ne risentiranno le start-up del settore, e in particolare quelle legate ad Internet, che rappresentano oggi il segmento maggiormente dinamico, colpite dalla riduzione degli iper-ammortamenti. Inoltre, l’aumento dello spread e il probabile credit crunch colpiranno maggiormente le start-up, tipicamente più indebitate, e favoriranno la vendita all’estero dei progetti più promettenti, con conseguente indebolimento del settore innovativo italiano.
Sul terreno fiscale, Antonio Ortolani, dell’AIDC, ha esaminato in dettaglio le iniziative per IRES e Flat Tax. Questa proposta intende rispondere sia alla concorrenza generata anche nell’ambito della UE da sistemi meno onerosi, sia alla convinzione che una minor pressione fiscale si traduca nel tempo in maggior capacità di spesa con conseguenti effetti benefici sul Pil, almeno nel medio periodo.
Da qui la riduzione dell’aliquota Ires dall’attuale 24% al 15%, ma solo in funzione dell’utilizzo che verrà fatto dell’utile/base imponibile Ires. Vi è tuttavia il rischio che ciò comporti ulteriore complicazione del sistema, e quindi ulteriore contenzioso anziché semplificazione. Tali criticità potrebbero essere ridotte ricercando un approccio più semplice che divida la tassazione del reddito conseguito dai soggetti Ires in due momenti:
• una prima imposizione – più modesta – al momento della produzione;
• un secondo prelievo allorché il reddito prodotto esce dal mondo dell’impresa per passare, consumo o risparmio che sia, al mondo del privato (distribuzione al socio). Occorrerà poi in tal caso legare anche tale momento alla riforma dell’Irpef pagata dal socio e privilegiare la scelta dell’imposta sostitutiva sui dividendi.