I contratti derivati over the counter (OTC) sono stati, negli ultimi anni, grandi protagonisti della vita giudiziaria del nostro Paese, generando un contenzioso variegato che ha messo di fronte clienti ed intermediari-contraenti. L’indagine sui derivati è ben lontana dall’essersi esaurita ma, sino ad ora, le Corti si sono dimostrate sensibili alle novità dottrinali e giurisprudenziali, interpretando la fattispecie alla luce delle più recenti tendenze dell’analisi giuridica. Le pronunce sono, alle volte, in parziale disaccordo ma sono intervenute sui temi di maggiore attualità del contenzioso: senza voler considerare il filone dei contratti derivati stipulati dalla pubblica amministrazione, si possono richiamare provvedimenti in tema di nullità per difetto di causa concreta, di collegamento negoziale, di natura dei contratti aleatori. In tutti i casi, i Tribunali hanno cercato di individuare, partendo da riflessioni di natura generale, la soluzione del caso concreto, valorizzando le peculiarità che caratterizzano la fattispecie: questa vasta esperienza può essere ricostruita illustrando i principali argomenti affrontati nelle pronunce più recenti in materia. Si tratta di un percorso non sempre lineare, che mette in luce progressi e discrasie nel settore dei derivati “tailor made”.
L’elevata rischiosità e l’opacità intrinseca dei derivati negoziati singolarmente (over the counter o OTC) hanno generato negli ultimi anni un contenzioso alluvionale su tutto il territorio nazionale, che è espressione della costante frizione tra gli interessi dei clienti-investitori e dei prestatori del servizio (principalmente le banche).
Le vicende relative ai contratti derivati originano in massima parte dal rapporto impari che li sottende: uno dei due contraenti è generalmente meno esperto e si confronta con strumenti finanziari di difficile – se non impossibile – comprensione. Di fronte trova, inoltre, una controparte professionale cui è attribuito il doppio ruolo di consulente e contraente del rapporto: si tratta di un conflitto di interessi palese e di difficile gestione, sul quale si sono concentrati nel tempo gli interventi del Legislatore e dell’Autorità di Vigilanza.
Nonostante la costruzione di un ambiente normativo fortemente regolamentato, in cui l’azione dell’intermediario viene irreggimentata tramite regole pervasive di informazione e comportamento, gli abusi non sono mancati; l’esigenza di giustizia che ne è derivata è testimoniata da volumi di contenzioso amplissimi e variegati nell’oggetto. La complessità della vicenda ha prodotto orientamenti non sempre concordi nelle Corti di merito (e non solo) e stimolato un dibattito serrato tra gli interpreti della disciplina.
Nel corso del tempo, peraltro, la giurisprudenza si è dimostrata ricettiva di alcune posizioni dottrinali e, nell’affrontare le condotte “seriali” poste in essere dagli intermediari, ha dato vita a veri e propri orientamenti interpretativi, che si sono così stratificati. I principali filoni giurisprudenziali sono rappresentati brevemente in questo intervento, fermo restando che il dibattito circa la natura e le caratteristiche dei contratti derivati è lungi dall’essersi esaurito e molti temi oggetto di analisi non sono ancora pervenuti ad una ricostruzione definitiva.
La violazione degli obblighi di comportamento dell’intermediario
Il punto di partenza in materia di giurisprudenza sui derivati (e non solo) è certamente il dibattito avviato nei primi anni duemila circa la violazione delle norme di comportamento da parte dell’intermediario, nella prestazione dei servizi di investimento. La sottoscrizione di contratti derivati OTC, come detto, è presidiata da un corpus di norme di condotta piuttosto elaborato, espressione dei principi generali di diligenza, correttezza e trasparenza sanciti dal TUF, cui l’intermediario è tenuto ad adeguarsi (v. artt. 21 ss. D.Lgs. 58/1998 (TUF); Reg. Consob. 16190/2007; Com. Consob n. 90191104/2009; Com. Consob n. 0097996/2014).
Si è quindi posto il tema relativo alle conseguenze della violazione delle regole di condotta che, dì per sé, si considerano non derogabili: una prima fase del contenzioso in materia di servizi di investimento ha quindi avuto per oggetto la possibilità di ritenere i relativi contratti di intermediazione affetti da nullità virtuale, ai sensi dell’articolo 1418, comma 1, c.c..
L’incertezza è stata grande e si è reso necessario un intervento chiarificatore da parte della Corte di Cassazione a Sezioni Unite che, con due storiche sentenze gemelle, ha stabilito che le regole di condotta e di informazione non possono considerarsi come “regole di validità” e, di conseguenza, la loro violazione non comporta la nullità del contratto, bensì, a seconda dei casi (a) il risarcimento del danno a carico dell’intermediario, se la violazione è avvenuta precedentemente alla sottoscrizione del contratto (c.d. responsabilità precontrattuale); e (b) un inadempimento contrattuale, con conseguente possibilità di risolvere il contratto in essere al ricorrere degli estremi di gravità di cui all’articolo 1455 c.c., oltre ovviamente al risarcimento del danno, nel caso in cui la violazione sia avvenuta successivamente alla stipula, e quindi nel periodo in cui il contratto è in vigore (leading case, Cass., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725; Cass., 22 marzo 2013, n. 7283; Cass., 29 febbraio 2016, n. 3950).
Non si esclude, inoltre, la possibilità di invocare il diverso rimedio dell’annullabilità del rapporto, per errore o dolo, al ricorrere dei relativi presupposti di legge.
Copertura del rischio e nullità del contratto derivato per difetto di causa
Molti contratti derivati OTC sono sottoscritti con il preciso obiettivo di svolgere una funzione di copertura rispetto a determinati rischi di natura economica: questa funzione è gergalmente detta hedging. In giurisprudenza ci si è più volte interrogati sulla sorte del contratto derivato che materialmente non sia in grado di perseguire tale funzione, perché strutturato con caratteristiche economiche tali da rendere materialmente impossibile assicurare una copertura del rischio collegato.
Si tratta evidentemente di una valutazione di conformità con la “causa concreta” del rapporto, cioè lo scopo pratico del negozio effettivamente perseguito dalle parti. L’impossibilità di raggiungere gli obiettivi prefissati può determinare la nullità del contratto per difetto del requisito essenziale della causa, con le conseguenti restituzioni ad opera delle parti (leading case, Cass., 8 maggio 2006, n. 10490).
I derivati sono stati, nel corso del tempo, terreno ideale di applicazione di questa teoria e ad oggi, in un numero cospicuo di pronunce si è tentato di assicurare la tutela dell’investitore ravvisando la nullità del contratto per assenza del requisito della causa concreta, intesa nell’accezione di interesse pratico (appunto la “copertura”) che le parti erano dirette a realizzare.
La casistica è – per sua stessa natura – piuttosto variegata, ma tra le varie pronunce relative alla nullità si possono citare i casi in cui il derivato abbia una struttura tale da rendere quasi impossibile un beneficio per l’intermediario (Trib. Monza, 17 luglio 2012; Trib. Alba, 22 marzo 2011; Trib. Milano, 19 aprile 2011 Trib. Salerno, 2 maggio 2013); il caso in cui il derivato debba coprire un rischio derivante da un contratto non perfezionato (Trib. Salerno, 21 giugno 2011; ma vedi anche le riflessioni in tema di collegamento negoziale di cui infra); il caso in cui il contratto preveda un mark to market, cioè il valore attuale, in un dato momento storico, della perdita di una parte a cui corrisponde il valore attuale dell’utile dell’altra, negativo e non indicato in contratto né compensato da un pagamento alla stipula – c.d. upfront (App. Trento, 3 maggio 2013); il caso in cui la misura dell’upfront non sia idonea a ristabilire la condizione di parità delle parti (Trib. Orvieto, 12 aprile 2012).
Il rapporto tra contratto di finanziamento e contratto derivato: il collegamento negoziale
Quando il contratto derivato viene sottoscritto con una funzione di copertura, si pone il problema di valutare cosa accada quando tale funzione non possa essere svolta nella pratica, poiché il contratto da cui dovrebbe originare il rischio da “coprire” non si perfeziona.
Si tratta di un’ipotesi di collegamento negoziale, ricostruzione dottrinale accolta anche in giurisprudenza, secondo la quale due o più negozi, autonomi e distinti, sono diretti ad uno stesso fine, per cui l’invalidità dell’uno sarà destinata a comunicarsi all’altro (simul stabunt, simul cadent; v. Cass., 12 luglio 2005, n. 14611). Nel caso del rapporto tra derivati e finanziamento, ciò si sostanzierà nella volontà di perseguire la copertura del rischio economico finanziario attraverso distinti rapporti contrattuali.
Gli indici materiali per ravvisare il collegamento tra i due contratti sono vari e devono necessariamente emergere da una valutazione complessiva del caso pratico: si pensi, ad esempio, alla sussistenza nel contratto di finanziamento di previsioni apposite relative all’obbligo di stipulare derivati di copertura. In considerazione di ciò, però, alcune Corti di merito hanno affermato che, venuto meno il contratto di finanziamento posto a base del contratto derivato, venga meno anche l’interest rate swap, poiché una volta cessato il rapporto di finanziamento, l’unitaria operazione economica non può più essere effettuata e l’interesse unitario non è più perseguibile (Trib. Brindisi, 29 gennaio 2013; Trib. Lucera, 26 aprile 2012; Trib. Salerno, 21 giugno 2011. V. anche ABF Milano, 7 aprile 2014, n. 2075).
Costi impliciti
La struttura del contratto derivato è complessa e può nascondere oneri non espressamente rappresentati dall’intermediario. Occorre dunque effettuare necessariamente una verifica in merito alla struttura dei costi ed alle commissioni dovuti da quest’ultimo: a tal riguardo, un particolare tema di discussione concerne il c.d. costo implicito o margine di intermediazione fissato in favore dell’intermediario.
In sostanza, il contratto derivato può prevedere al suo interno, oltre alle commissioni dovute, una strutturazione dei flussi finanziari più sfavorevole per il cliente rispetto al fair value, cioè il prezzo che sarebbe stato fissato ad una controparte sicura come, ad esempio, una banca: ciò perché il rischio di controparte verso un cliente retail è naturalmente più alto rispetto ad un intermediario bancario.
La differenza tra il valore effettivamente praticato nel derivato ed il fair value costituisce un elemento di redditività per l’intermediario e viene definito mark-up; il derivato così strutturato è detto non-par. In pratica, quindi, il derivato non-par è sbilanciato in favore dell’intermediario e può determinare un valore attuale del mark to market negativo al momento di conclusione del contratto.
In astratto, la circostanza che il contratto rechi al suo interno un costo implicito non vuol dire, di per sé, che lo stesso sia viziato (Cass., 21 dicembre 2011, n. 47421; Trib. Verona, 10 dicembre 2012). In giurisprudenza, però, si è ritenuto che alcuni contratti fossero strutturati in modo da garantire in ogni caso un reddito per l’intermediario ed una perdita per il cliente, e perciò nulli (Trib. Bari, 15 luglio 2010; Trib. Milano, 14 aprile 2011). La giurisprudenza è però ancora incerta sul punto e si possono citare anche pronunce di segno parzialmente opposto (App. Milano, 3 giugno 2014).
Il derivato come scommessa razionale
Come detto, i contratti derivati sono strumenti complessi, e la loro sottoscrizione presuppone una necessaria attività (in)formativa da parte dell’intermediario, che deve rendere edotta la sua controparte delle caratteristiche e dei rischi dei contratti negoziati. Partendo da questa premessa, alcuni giudici hanno superato il dibattito sulle regole di validità descritto sopra ed hanno valutato se ritenere nulli i contratti stipulati da una parte senza conoscere alcune informazioni “fondamentali”.
L’argomentazione si regge sul presupposto che i contratti derivati siano “scommesse autorizzate”, ovvero contratti che contengono al loro interno una intrinseca componente aleatoria, voluta dalle parti (Cass. 8 maggio 2014, n. 9996). Ritenere lo strumento finanziario una scommessa non vuol dire, però, assimilarlo ad un lancio di dadi: il derivato è infatti una scommessa “razionale”, in cui le alee possono essere in qualche modo quantificate e gestite.
Se tutto ciò è vero, però, si deve ritenere che entrambe le parti debbano essere adeguatamente informate circa la misura dei rischi generati dal contratto, in modo da poter effettuare le proprie scelte consapevolmente (sui contenuti dell’obbligo informativo, v. Trib. Milano 13 febbraio 2014; Cass., 25 giugno 2008, n. 17340). Per converso, ove ciò non accada, dovrà ritenersi che manchi l’accordo delle parti sull’oggetto del contratto: in sostanza si sostiene che una delle due parti non sappia quali rischi sta assumendo attraverso la stipula del rapporto, e ciò indipendentemente dallo scopo cui il derivato è destinato (copertura o speculazione).
Partendo dalle riflessioni sopra richiamate, alcune corti di merito hanno ritenuto nulli i contratti derivati sottoscritti senza che fossero comunicate alcune informazioni necessarie, come la previsione dell’andamento dei tassi, l’indicazione del compenso dell’intermediario (App. Milano, 18 settembre 2013), tra cui il mark to market (Trib. Torino, 17 gennaio 2014; contra, però Trib. Milano 19 aprile 2011).
Rinegoziazione dei contratti derivati
Molto spesso i contratti derivati in perdita per il cliente (in particolar modo gli interest rate swaps) sono oggetto di “rimodulazione”.
Si tratta cioè di una rinegoziazione, consistente nella risoluzione anticipata del contratto, con calcolo del valore del mark to market sulla base dei parametri di riferimento indicati nel contratto, cui si accompagna la contestuale sottoscrizione di un secondo derivato, in cui il creditore del primo swap effettua un pagamento in favore del cliente tale da compensare il mark to market del rapporto risolto (cioè un pagamento upfront).
A fronte del pagamento, però, il nuovo swap sarà gravato da un corrispondente mark to market negativo, cioè “ingloberà” il debito generato dal precedente rapporto. Ciò peraltro è in linea con quella giurisprudenza secondo cui ad ogni contratto non-par (inizialmente non equo ovvero disequilibrato) deve corrispondere la liquidazione di un upfront, il quale compensi in qualche forma tale sbilanciamento (Trib. Bari, 15 luglio 2011; Trib. Orvieto, 13 aprile 2012; Trib. Verona, 25 marzo 2013; App. Milano, 18 settembre 2013).
Il nuovo swap generalmente presenta condizioni economiche in linea con le condizioni di mercato esistenti al tempo della stipula. Nella prassi si possono individuare casi in cui il nuovo swap addirittura è basato su indici diversi rispetto al primo contratto.
In relazione ai contratti derivati rinegoziati possono riferirsi tutte le questioni affrontate nei paragrafi che precedono, relative ai possibili vizi nella negoziazione e sottoscrizione di contratti derivati ed alla loro idoneità a perseguire gli obiettivi prefissati dalle parti: un derivato in tal senso sbilanciato non è più idoneo a proteggere le parti da un rischio (cfr., ad es. Trib. Bari, 15 luglio 2010).
Una tema ulteriore riguarda il rapporto che sussiste tra il contratto derivato originariamente stipulato e quello successivamente rinegoziato e, in particolare, se i vizi del contratto originario possano “comunicarsi” al rapporto rinegoziato. Al riguardo, sono state elaborate da parte della dottrina e della giurisprudenza differenti teorie.
Secondo una prima tesi, tra il derivato originario e quello rinegoziato sussisterebbe un collegamento negoziale; di conseguenza, si deve ritenere che i vizi di un rapporto possano ripercuotersi su un altro (ad es., la nullità) e che il possibile inadempimento dell’intermediario ai doveri prescritti dall’art. 21 TUF abbia effetti sull’intero rapporto intercorso con il cliente (App. Trento, 5 marzo 2009; Trib. Milano, 19 aprile 2011; Trib. Verona, 15 novembre 2012).
Secondo una diversa impostazione, la rinegoziazione dei derivati configurerebbe un caso di novazione oggettiva; rispetto al collegamento negoziale, si dovrebbe in questo caso ritenere che i vizi del rapporto originario non si trasmettono nei casi di cui all’articolo 1234 c.c., comma 2 (Trib. Verona, 15 novembre 2012).
Prospettive future
La rassegna di giurisprudenza proposta sopra non esaurisce il numero delle questioni connesse al mondo dei derivati, un universo che è stato affrontato da molteplici punti di vista, anche alla luce di un quadro normativo applicabile stratificato. Il derivato è un contratto particolare e sulla sua disciplina influiscono tanto le norme generali in materia di contratti quanto le regole particolari in tema di intermediazione finanziaria, peraltro in continuo aggiornamento. Ai filoni giurisprudenziali segnalati sopra devono necessariamente segnalarsi percorsi “nuovi” non ancora compiutamente analizzati.
A titolo di esempio, si richiamino le esperienze relative a quei contratti, di recente assurti agli onori delle cronache giudiziarie, in cui ampie clausole, configurabili come contratti derivati su cambi, sono state inserite all’interno del corpo del contratto di finanziamento, e con esso sottoscritte (Trib. Udine, 29 febbraio 2016 e Trib. Udine, 11 maggio 2015).
Ancora, si richiamino i casi in cui il contratto derivato è stato impiegato con funzione “creditizia” attraverso la corresponsione di un cospicuo upfront ed alle riflessioni sul rapporto tra contratti swap ed operazioni di finanziamento in relazione al tasso di interesse praticato dall’intermediario che sia controparte di entrambi i contratti (Corte Conti, Sicilia, sez. giurisdiz., 7 agosto 2006, n. 2376 e 29 luglio 2009 n. 1891).
In definitiva, si tratta di un settore in perpetuo divenire, sensibile sia ai mutamenti normativi che ai nuovi impieghi ed alle nuove strutture che interessano questo strumento, dotato di indiscutibile plasticità. Anche per questa ragione, le correnti sopra richiamate non esauriscono la riflessione in materia di contratti derivati, ma costituiscono solo un punto di partenza per affrontare le tendenze più recenti.