Si è consumato presso il Tribunale di Perugia l’ultimo episodio della guerra sanguinosa tra risparmiatori e banche/intermediari finanziari, una lotta senza esclusione di colpi che nel corso degli anni ha generato un florido e vivacissimo contenzioso ed ha contribuito alla nascita di veri e propri filoni giurisprudenziali
La sentenza è l’ultimo capitolo delle tormentose vicende giurisprudenziali degli investimenti “all’italiana”, in relazione alle quali può essere utile un breve riepilogo. In un primo tempo, l’attenzione degli interpreti si è concentrata sulla portata dei rimedi esperibili nel caso di violazione da parte dell’intermediario dei propri doveri di informazione e di corretta esecuzione delle operazioni a suo carico, sino ad alcuni celebri arresti della Corte di Cassazione (le famose sentenze Rordorf del 2007, che hanno escluso la nullità dei contratti viziati da tali inadempimenti).
Successivamente, alcune corti di merito hanno (coraggiosamente) rivolto la loro attenzione al tema della nullità del contratto per difetto di causa, sposando la più moderna concezione di causa in concreto del contratto, già affermatasi in giurisprudenza in relazione ad altre fattispecie. Non sono poi mancati interventi innovativi, come la tanto commentata sentenza della Corte di Appello di Milano del 18 settembre del 2013, con le sue riflessioni sul tema della causa di scommessa e sulla necessità che tale rapporto sia ben compreso dall’investitore, e qualche escursione sui noti temi della forma scritta ad substantiam dei contratti finanziari.
Arriviamo quindi ad una nuova stagione del contenzioso, di cui questa sentenza è espressione, che sembra essere quella della maturità. Giudici ed avvocati cominciano ad avere alcuni punti fermi e sembrano muoversi con maggiore sicurezza su questi temi spesso scivolosi, sebbene vi sia ancora spazio per qualche profilo di innovazione, come nel caso di questa pronuncia dello scorso 22 dicembre.
La vicenda da cui trae origine il contenzioso nasce dalla gestione di un portafoglio di titoli con il contributo di un promotore finanziario infedele, successivamente sanzionato e radiato dall’albo. Nel corso dei primi anni 2000 sono concluse per il tramite del promotore alcune operazioni in derivati (contratti di opzione) collegate all’acquisto di Titoli di Stato italiani mentre, in altri casi, il promotore infedele si appropria del denaro che era stato in precedenza consegnato dai clienti con lo scopo di concludere determinati contratti finanziari.
La pronuncia, che in estrema sintesi vede soccombere la banca ed il promotore rimasto contumace, affronta le questioni sottoposte anche alla luce della giurisprudenza stratificatasi nel corso degli anni.
Il giudice procede innanzitutto a valutare l’adempimento degli obblighi informativi e di comportamento a carico della banca nel quadro normativo anteriore al recepimento della direttiva MiFID, riconoscendo una responsabilità precontrattuale e conseguente risarcimento del danno a carico dell’intermediario. La pronuncia quindi eredita i principali orientamenti affermatisi in relazione ai doveri di condotta previsti dall’articolo 21 del TUF e li fa propri, adeguandoli alle circostanze del caso concreto.
E’ interessante notare come il collegio giudicante proponga una riflessione sulla denominazione “ingannevole” dello strumento finanziario venduto: si tratterebbe di una vera e propria “truffa delle etichette”, attuata attribuendo ad un complesso strumento derivato un più “rassicurante” riferimento ad un titolo di stato italiano (“BTP Tel” o “index” oppure ancora “online”). Anche in considerazione dell’opacità dello strumento e del suo nome (!), quindi, la banca avrebbe dovuto adempiere ai propri obblighi informativi con particolare scrupolo e fornire tutti gli avvertimenti del caso.
C’è poi un secondo aspetto, molto interessante, collegato al rapporto tra il promotore finanziario infedele e l’intermediario che ha sottoscritto i relativi contratti finanziari. A tal riguardo, l’articolo 31 del TUF è chiaro nello stabilire che “il soggetto abilitato che conferisce l’incarico è responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal promotore finanziario”. Il collegio perugino applica tale previsione riconoscendo in capo all’intermediario bancario “una responsabilità oggettiva e indiretta che opera per il solo fatto che la condotta illecita del promotore rientri nel quadro delle attività funzionali all’esercizio delle incombenze allo stesso affidate, con il solo limite del concorso doloso del cliente nella commissione del reato del promotore”.
Nelcaso di specie, peraltro, la Corte non ha ritenuto sussistente il concorso tra i due soggetti, nonostante la grande confidenza tra promotore infedele e cliente e, soprattutto, nonostante le forme irrituali con cui il denaro oggetto delle operazioni poi non concluse è stato consegnato al promotore. I fondi infatti venivano trasferiti direttamente in contanti e non tramite bonifico, allo scopo di realizzare un “piccolo imbroglio” (testuali parole rinvenute in una comunicazione del promotore) finalizzato all’acquisto dei titoli a danno della banca. L’imbroglio, alla fine, si è ritorto contro il cliente, poiché il promotore ha tenuto per sé il denaro versato, appropriandosene; alla luce di questa pronuncia, però, sembra lecito chiedersi se e quando, per la giurisprudenza italiana, un cliente potrà essere ritenuto correo del promotore (e non soltanto “vittima”).
In definitiva, la pronuncia perugina è davvero figlia del nostro tempo e conferma una certa tendenza alla tutela giudiziale dell’“investimento sballato”. Certamente, non si può sottacere come in queste operazioni l’intermediario rivesta una posizione di vantaggio indubbia, e che eventuali abusi debbano essere necessariamente sanzionati. Resta però la sensazione che il ricorso all’autorità giudiziaria stia diventando una sorta di “salvagente” per gli investitori sfortunati (o malaccorti) e che, soprattutto, il favor giudiziale per i risparmiatori sembra non arrestarsi neanche di fronte a certi “piccoli imbrogli” commessi da questi ultimi.