Una campagna elettorale giocata sulla identità dei votanti. Un sistema elettorale che avvantaggia il candidato moderato. Una diversa partecipazione degli elettori. Ecco alcune delle ragioni del risultato americano. Ma nulla vieta che alla prossima tornata un candidato radicale possa vincere di nuovo
Ormai, dopo diversi giorni di attesa e specialmente dopo l’attribuzione dei voti elettorali di Arizona (11 voti) e Georgia (16 voti), quando già Biden aveva superato la soglia dei 270 voti per la vittoria in Pennsylvania (20 voti), i risultati elettorali sono netti ed evidenti: 306 voti a Biden contro i 232 a Trump, 5.651.879 voti in più a Biden e la vittoria in 5 stati (Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, Arizona, Georgia) che erano stati vinti da Trump nel 2016. Solo la lunga attesa dello spoglio dei voti e il comportamento di Trump nel non volere riconoscere la sconfitta hanno attenuato l’impatto mediatico di un risultato così forte.
Cerchiamo ora di capire, innanzi tutto, che cosa più precisamente dovremmo spiegare: la vittoria di Biden o la sconfitta di Trump? Non è una domanda del tutto oziosa, perché aiuta a focalizzare più efficacemente la spiegazione di un evento in se stesso assai complesso.
Se notiamo che da circa 30 anni (1992) un presidente in carica non fallisce la rielezione e questa volta invece l’ha fallita, è ragionevole chiedersi perché ora entriamo nell’era post-Trump, cioè come si spiega la sconfitta di Trump e perché quei cinque Stati sia passati al candidato democratico con una differenza di 266.690 voti su 152.138.434 voti complessivi.
Più precisamente, se in Michigan e in Pennsylvania lo scarto è stato un po’ più netto: 147.411 e 74.047 rispettivamente, negli altri tre stati lo scarto è stato minimo (10.457 voti in Arizona, 14.205 in Georgia e 20.570 nel Wisconsin). Dunque, che cosa ha influito in questi spostamenti minimi o, comunque, assai ridotti, che il meccanismo elettorale ha ingrandito (chi vince anche solo di un voto prende il bottino, cioè tutti i voti elettorali)?
Considerando i diversi commenti, più o meno convincenti e le diverse ipotesi fatte, anche se con qualche semplificazione, due ipotesi connesse sembrano dare una spiegazione accettabile, che analisi più approfondite e sostenute da sondaggi accurati potranno meglio confermare in un momento successivo.
La prima ipotesi si capisce meglio se si torna a una delle ragioni principali della sconfitta di Hillary Clinton nel 2016. In quelle elezioni, in alcuni di quegli Stati ora tornati ai democratici, la sinistra di Sanders non andò a votare. Un comportamento ricorrente della sinistra anche nelle nostre latitudini in cui le divisioni, le frammentazioni, le rivalità interne spiegano come paradossalmente si lasci vincere l’avversario.
Anche questa volta Biden tanto simpatico non è a quella stessa sinistra, ma con l’esperienza di questi quattro anni i suoi leaders e votanti hanno valutato che Trump sarebbe stato peggio. Si sono quindi comportati come, secondo Montanelli, si doveva fare con la Democrazia Cristiana negli anni Settanta del secolo passato: ‘turiamoci il naso’ e facciamolo. Va aggiunto che questa volta la Ocasio-Cortez, la Warren e gli altri leader della sinistra democratica potrebbero far valere il loro appoggio per ottenere l’impegno di Biden su alcune politiche per loro importanti.
La seconda ipotesi trova sostegno anche in altre elezioni e riguarda il giudizio negativo sulla sottovalutazione di Trump della pandemia e i suoi fallimenti in questo ambito. Qui, sia un’opinione moderata – sia pure ridotta – è andata a votare per contrastare queste politiche; sia elettori impauriti dalla forte incertezza, anche economica, indotta dalla pandemia hanno cercato le maggiori sicurezze che poteva dare un candidato esperto e più rassicurante rispetto al presidente uscente.
Le due ipotesi sono connesse, perché alla fine in un contesto di radicalizzazione tra le parti in competizione e una campagna elettorale prevalentemente giocata sulle identità dei votanti, una valutazione negativa del presidente uscente e delle sue politiche ha spinto a votare per un candidato moderato facendo scattare gli incentivi insiti in un sistema elettorale che avvantaggia appunto il candidato moderato (il cosiddetto ‘first part the post’, chi prende la maggioranza anche risicata prende tutto).
Si tenga, poi, presente che entrambe queste spiegazioni si basano sulla partecipazione di elettori che nel 2016 si erano astenuti. In questo confermando che l’elettorato americano resta sostanzialmente polarizzato. Solo una congiuntura particolare ha ridato paradossalmente spazio e protagonismo al voto moderato e in una prossima tornata un candidato radicale potrebbe vincere di nuovo, come nel 2016.