Superpotenze
Perché l’Europa non lo è.
E cosa può fare l’Italia
Paola Pilati

In un mondo in cui tornano a dominare i Superpowers, e dove riconosciamo come tali gli Usa, la Russia e la Cina, in un rapporto di reciproca e crescente competizione, l’Europa si può considerare ancora una superpotenza? E che ruolo può giocare nel nuovo contesto?

Il tema è stato dibattuto al Bruegel Institute sulla base del Rapporto 2018 dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), che passa in rassegna le dinamiche politiche che oggi contrassegnano non solo le superpotenze ma tutte le aree più calde del mondo, dal Medio Oriente ai paesi del Golfo alla Korea. In questo nuovo disordine mondiale, con i regionalismi che prendono vigore insieme al tramonto della globalizzazione, con il contagio reciproco tra sovranismo e populismo, l’Europa appare in equilibrio instabile tra l’euroscetticismo di molti suoi cittadini e governi, la ferita della Brexit e della Catalogna, e la ripresa economica conclamata (anche se a macchia di leopardo). Un equilibrio assicurato finora dal governo delle banche centrali sull’economia, una certa stabilità dei prezzi, e la disoccupazione in calo. Il problema è appunto il fatto che la crescita dipende troppo dalle banche centrali: nel 2008, cioè all’inizio della crisi, la Bce aveva 1.500 miliardi di titoli nel suo bilancio, oggi ne ha 4.500, grazie all’attività di acquisti con cui ha dato ossigeno all’economia dell’Unione, ma la cosa non potrà durare ancora per molto.

Un altro problema è la persistenza di forti differenze tra aree dello stesso paese (come la Calabria in Italia e la Vallonia in Belgio), che alimentano lo scontento e le tensioni, mentre in quelle più dinamiche nascono spinte autonomiste. Un mix che, anche se non produce forti effetti macroeconomici, di certo avvelena il clima per gli affari.

Sebbene in termini di Pil, di ruolo nei commerci internazionali, e come potenza militare l’Europa sia sempre un peso massimo, tuttavia si fa fatica a vederla come un Superpower, segnala il Rapporto. Perché? Perché è troppo condizionata da uno stato mentale “Stato-centrico”, ha sostenuto ilpolitologo Andrew Moravcsik, il che le ha fatto perdere la consapevolezza del peso reale dell’Unione europea nel mondo. Insomma: c’è una distanza tra il suo potenziale di risorse e la sua capacità di metterle in campo, di farle giocare in vista di obiettivi collettivi, in una parola di credibilità. E quindi di leadership.

Sul piano strategico-politico dal Rapporto (nella sezione curata da Sonia Lucarelli) partono tre raccomandazioni: ridurre, ripensare, riaffermare. Occorre prendere coscienza che l’Europa a 27 non è in grado di prendere decisioni efficaci né per rispondere ai bisogni dei suoi cittadini né per contare sul piano internazionale. A questo punto meglio abbattere il tabù e accettare un’Europa in cui sia un gruppo di paesi a fare i passi necessari verso una più profonda integrazione. Ma anche ripensare il metodo di integrazione superando il nodo che vede in contraddizione priorità politiche internazionali e esigenze di integrazione. Infine, non arretrare sui principi fondamentali che sono alla base dell’Unione: la difesa della rappresentanza democratica, dello Stato di diritto e dei diritti umani, del welfare per ridurre le diseguaglianze. Ma anche combattere e sanzionare severamente tutte le violazioni di questi principi.

Sul piano economico, Franco Bruni mette in guardia l’Europa dall’illusione ciclica: quella che si verifica quanto vengono persi di vista i trend di lungo termine e ci si concentra solo sulle note positive del breve termine. I miglioramenti economici e finanziari che il continente ha sperimentato nella sua uscita dalla crisi, scrive Bruni, possono essere ciclici, e contenere nuove fragilità e pericoli. Le previsioni sulla crescita del Pil nel 2018-19 sono in rallentamento, e la fine del supporto monetario della Bce è un elemento di incertezza. Come preoccupanti sono gli altri problemi di fondo dell’area, dall’invecchiamento della popolazione alla disoccupazione, dai debiti pubblici ai crediti problematici della banche. Tutto questo andrebbe affrontato in una prospettiva di lungo termine.

Gli allarmi in questo senso non sono mancati. La Banca dei Regolamenti internazionali, nel giugno 2017, ha lanciato l’allerta sulla “trinità” dei rischi a livello internazionale: bassa produttività, sostenibilità del debito, nessuno spazio per usare lo stimolo fiscale e monetario in caso di necessità. In seguito la Bce, nel novembre scorso, ha lanciato la sua allerta per l’area dell’euro, dicendo che si sottostimano i rischi della fragilità del sistema bancario, del debito, e di una improvvisa crisi di illiquidità di azioni, bond e derivati. Il pericolo, osserva Bruni, è che la preoccupazione politica di rafforzare i legami all’interno dell’Europa anche oltre le differenze possa presentare un conto salato nei momenti di crisi. Insomma, attenzione a non rilassarsi sugli allori della ripresa contingente.

I più importanti progetti di integrazione posti sul tavolo dei partner europei a fine 2017 sono il completamento dell’Unione bancaria, la riforma dell’architettura della governance economica e una nuova disciplina delle finanze nazionali. Tre sfide complesse, su cui si misurerà la volontà dei protagonisti sul piano concreto.

Uno sguardo all’Italia. La controversia tra Unione europea e governo italiano verte sulla nostra capacità di ridurre il debito rispetto al Pil nel lungo periodo. Il surplus dell’avanzo primario già raggiunto è stato un successo ammesso anche dai guardiani dell’Unione europea, ma sui conti di quest’anno le previsioni sono discordanti: mentre il governo ha annunciato un avanzo primario in aumento (dall’1,7 al 2,5 per cento), la Commissione ne ha ridotto drasticamente l’entità a zero. D’altra parte, nota Bruni, il giudizio vero verrà dai mercati, perché sta a loro assorbire il debito e quindi decretarne la sostenibilità. E con la fine del QE la prova sarà ancora più difficile e cruciale.

Il sentiero quindi è stretto. È per questo che alimentare illusioni sui modi per poterlo allargare è molto pericoloso. La prima è l’illusione monetaria, basata sull’idea di poter affermare la propria sovranità nell’aumentare la spesa in deficit. Illusione che prima o poi si paga. La seconda illusione è l’idea che i deficit si possano autofinanziare, contraddetta oramai da molti esempi. La terza ragione di divergenza con l’Europa è la scarsa capacità produttiva del nostro paese, non in grado di allargare la domanda: un aumento della domanda in deficit, in una economia poco efficiente come la nostra, non è in grado di generare più ricchezza, né maggiore crescita. È per questo che la madre di tutte le riforme, in Italia, è quella di mettere mano al funzionamento strutturale della nostra economia con politiche che non siano solo quelle di stimolare la domanda aggregata.

Il cuore delle riforme necessarie al nostro paese si può sintetizzare in un’unica formula: allocazione delle risorse. Verso usi più produttivi, verso nuove opportunità, nuove tecnologie. Una cura che, come molte ricerche hanno dimostrato, può produrre un forte aumento del Pil. Spingendoci, in conclusione, verso una maggiore competitività e integrazione con il resto dell’Europa. E offrendoci una nuova chance sullo scacchiere, se non mondiale, almeno Mediterraneo e appunto europeo e balcanico.

Certamente non siamo una superpotenza, ragiona alla fine del Rapporto Giampiero Massolo, ma l’Italia può interagire con i “big power”, stringendo sistemi di alleanze e nuovi rapporti in nome di una mutua convenienza. Le direzioni su cui muoversi sono quattro. La prima. La pietra miliare dell’Atlantismo va rivista non più in termini di cooperazione ma di competizione, luogo in cui ciascun paese deve trarre vantaggio dal suo network di relazioni bilaterali. Secondo: la ricerca della sicurezza del paese si muove oggi in uno scenario che non è bipolare ma asimmetrico e indipendente dai confini fisici. Restare ancorati all’Atlantismo è comunque il modo migliore per difendere i propri interessi. Terzo. Appartenere alle organizzazioni multilaterali non basta più, essere amici di tutti, equidistanti in ogni conflitto, campioni del dialogo, non paga. Le decisioni, anche scomode, vanno prese, per essere credibili con i nostri alleati. Quarto. La politica estera deve cercare il sostegno dell’opinione pubblica, sollecitando il senso di partecipazione e consapevolezza del ruolo che possiamo giocare nel mondo e che il mondo ci richiede. Avendo ben presente che la vera regola da cui dipende il peso di un paese, sia esso una potenza super, media o piccola, è la credibilità.