I mercati espongono giornalmente i dati rappresentativi della miglior economia, mentre i dati macroeconomici comprendono i valori di tutti gli operatori, spesso influenzati dall’andamento di aziende di grandi dimensioni, ma che si trovano in difficoltà
A distanza di un semestre dall’insorgere delle condizioni esogene causa dell’attuale crisi economica, un dato fra gli altri suscita attenzione per la sua interpretazione: i principali indicatori di Borsa hanno recuperato buona parte se non tutto il drawdown realizzato fra febbraio e marzo, mentre l’economia reale evidenzia dati negativi con proiezioni annualizzate ancora più significative.
I più consolidati studi teorici hanno da tempo dimostrato che non vi è correlazione statistica positiva fra andamento dei cicli economici e degli indicatori dei mercati finanziari, in particolare quelli azionari. Una delle chiavi di lettura suggerite per motivarne la ragione si riconduce alla natura “lagging” dei dati sul PIL, la produzione e l’occupazione e quella “leading” dei fattori che spingono alla negoziazione delle azioni. Ipotesi certamente valida, confermata da costanti rilevazioni statistiche.
Tuttavia, intendo sollecitare l’attenzione del lettore su un altro fattore che giustifica l’asimmetria. Gli indicatori di Borsa più significativi e seguiti prevedono periodiche revisioni della loro composizione, finalizzate a recepire pesi della capitalizzazione e intensità delle negoziazioni (il sistema ILC degli indici weighted) oppure, l’ammontare del prezzo delle azioni (il sistema equally weighted, corretto da un divisore). In tal modo l’indice stesso rappresenta costantemente le aziende che raccolgono il maggior interesse sul mercato a discapito di quelle che perdono valore delle proprie azioni uscendo dall’indice stesso.
Questa impostazione è in particolare caratteristica degli indici a composizione ristretta (da 25 a 50 titoli) utilizzati in modo prevalente per sintetizzare l’andamento dei principali mercati (con le eccezioni di Tokio e Londra).
I mercati espongono giornalmente i dati degli indici rappresentativi della miglior economia, mentre i dati macroeconomici ricomprendono i valori di tutti gli operatori, spesso influenzati dall’andamento in ritrazione di aziende in crisi ma di rilevante dimensione.
Una prima comprova di questo assunto risiede nel fatto che – nel caso dell’indice DJIA-30 – solo sei titoli attualmente ricompresi lo erano nel 1980 e tre nel 1976. I titoli precedentemente inseriti nell’indice sono ancora quotati (salvo rarissime eccezioni), generano fatturati significativi per l’economia, ma spesso producono utili contenuti oppure perdite, risultano molto indebitati non riuscendo più a raccogliere capitale di rischio e gravano consistentemente nell’attivo delle banche che le finanziano con operazioni di credito.
In definitiva, l’indice di Borsa sale perché rappresenta le azioni di società in crescita, mentre le aziende non più ricomprese gravano sugli indicatori economici, sui bilanci delle banche e sulle future previsioni economiche.
Chi investe sugli indicatori di Borsa ha così modo di distribuire il proprio rischio sull’economia con migliori prospettive ed è incentivato ad incrementare la propria domanda di investimenti, favorendo ulteriormente la crescita dei prezzi, mentre i fattori dell’economia reale debbono tenere in conto anche le condizioni delle aziende che via via risultano meno incidenti sugli indici oppure anche escluse.
Questa lettura ci induce ovviamente a considerazioni in merito alla efficacia del risparmio gestito, alle opportunità offerte dai fondi indici e alle debolezze di portafogli costruiti sulla base di considerazioni ex-post e valutazioni di solidità storica. Ricordiamo inoltre che quando un titolo non fa più parte di un indice, gli investitori istituzionali si liberano (e/o si devono liberare) delle proprie quote per reinvestire nei titoli di nuovo inserimento.
Diversa è invece la valutazione nell’ottica degli intermediari finanziari, tradizionali supporti delle aziende. La negoziabilità dei prestiti bancari è ovviamente molto inferiore rispetto a quella dei titoli azionari, nonostante il forte sviluppo delle operazioni di cartolarizzazione. Di fatto chi eroga prestiti alle aziende vede il proprio assetto condizionato nel caso del rallentamento o declino dello sviluppo dell’attività del cliente.
Nel modello dei sistemi finanziari europei continentali prevalentemente banco-centrici, il legame effettivo che si crea fra banca e cliente è di fatto molto incidente e condizionante nei fatti anche quando l’impianto normativo impone la separazione e limita o vieta la partecipazione al rischio. In condizioni congiunturali critiche, l’economia in precedenza consolidata viene accantonata dai mercati finanziari (soprattutto quelli efficienti), ma non dagli intermediari del settore creditizio che debbono rientrare di quanto “prestato”. È pertanto più che plausibile che i mercati finanziari presentino andamenti non in linea con i dati dell’economia reale.
Secondo questo modello interpretativo possiamo individuare quattro considerazioni, legate agli effetti delle crisi:
Quanto esposto motiva adeguatamente l’assunto iniziale, ma è anche indicatore di una scelta di cambiamento e di spirito di iniziativa necessaria per una migliore uscita dalla crisi complessiva dell’economia.