Una indagine - e una onesta autocritica - su come blockchain e smart contract, due aspetti della rivoluzione tech applicata al sistema e al mercato dell’arte, non garantiscono in sé né maggiore trasparenza né scambi più sicuri e non abbattono i costi di transazione. Per trasformare in senso "tech" il mercato dell'arte serve altro
In analogia con il termine Fintech, si utilizza in questo contributo quello di Artech – ancora non entrato nell’uso comune, ma già utilizzato (se non forse addirittura coniato) altrove da chi scrive (https://mirror.fchub.it/blockchain-e-arte-quali-vantaggi-per-operatori-e-utenti/ : un contributo che verrà messo in discussione proprio in queste pagine) — per intendere, con un neologismo che coniuga le parole Art e Technology, il fenomeno di innovazione tecnologica che sta investendo il sistema ed il mercato dell’arte, con una accelerazione significativa negli ultimi mesi a causa della ben nota pandemia.
Come per il Fintech, che riguarda il mondo finanziario e bancario, anche nell’Artech il fenomeno di innovazione tecnologica è iniziato — già da qualche anno — in un primo momento solo con la nascita di tutta una serie di piattaforme di vendita online, di cui progressivamente si sono dotate anche le principali case di aste (ma che dal punto di vista regolatorio non ponevano problemi nuovi, essendo l’e-commerce un fenomeno già affermato e quindi studiato da tempo), per poi concentrarsi recentemente soprattutto su quella che è considerata la punta della c.d. “quarta rivoluzione industriale” (secondo la definizione di Kapoor, in “The heart of fintech revolution blockchain perspectives and implications”): la tecnolgia blockchain, che è anche l’infrastruttura all’interno della quale risiedono gli smart contract, che solo grazie a quella possono essere utilizzati.
Sono pertanto questi due aspetti della rivoluzione tech applicata al sistema e al mercato dell’arte (blockchain e smart contract), ad essere fortemente messi in discussione in questa breve, e forse provocatoria indagine (ma del resto stavolta ci sarà anche tanta autocritica): da considerarsi, viste le premesse, come un work in progress, passibile nel tempo di ulteriori riflessioni e aggiustamenti di tiro.
Per impostare correttamente il ragionamento, e per renderlo anche più comprensibile, partiamo da alcuni punti ormai condivisi in dottrina.
Per la blockchain (ampiamente ‘saccheggiando’ da un lavoro di Giorgio Potenza, Fintech e blochchain: la validazione temporale elettronica alla luce del Decreto semplificazioni, in attesa delle Linee guida Agid, in E. Corapi – R. Lener (a cura di), I diversi settori del Fintech. Problemi e prospettive), occorre infatti tenere a mente come si tratti di “un raggruppamento di transazioni in blocchi che sono concatenati tra loro in una serie cronologicamente ordinata (appunto, “catena di blocchi”). La tecnologia presenta l’abitudine di attestare se e quando si è verificato un determinato scambio di valore tra coloro che la utilizzano, dispensando questi ultimi dal ricorso ai sistemi di autocertificazione e scambio di tradizionali, caratterizzati dalla necessità di una terza parte di fiducia (in generale, un’autorità centrale legittimata a svolgere la funzione di validazione degli scambi). Le transazioni, infatti, possono essere verificate automaticamente dai nodes del network attraverso un sistema di consenso distribuito, basato su algoritmi”. Per questo motivo tale tecnologia è annoverata tra le DLT (Distributed Ledger Technology), con cui si trova in un rapporto di species a genus.
Tutto ciò aveva fatto commettere a chi scrive (ma non solo, perché molti sono i progetti, le start up, nati negli ultimi tempi, che promettono di rendere più trasparente il mercato dell’arte, e di tracciare le opere e la loro provenienza e autenticità, tramite il ricorso alla blockchain), una enorme ingenuità: quella di affermare – nel già citato lavoro precedente (https://mirror.fchub.it/blockchain-e-arte-quali-vantaggi-per-operatori-e-utenti/ https://mirror.fchub.it/blockchain-e-arte-quali-vantaggi-per-operatori-e-utenti/) — come molti degli annosi problemi del mercato dell’arte, per l’appunto trasparenza del medesimo, provenienza delle opere, certificati di autenticità delle medesime, e financo la tenuta del registro obbligatoria (secondo il nostro Codice dei beni culturali) per chi esercita il commercio di cose d’arte, potessero trovare una definitiva soluzione.
È vero che sicuramente la blockchain avrà delle applicazioni nell’area della proprietà intellettuale – cui il problema delle autentiche si ricollega — ma nel ragionamento fatto in precedenza l’ingenuità sta nell’ignorare come nel sistema di blockchain ci sono, semplificando, tre categorie generali di Distribuite Ledgers.
La prima, pubblica, o permissionless – come le blockchain di Bitcoin o di Ethereum (le criptovalute, quindi) —, per cui ogni partecipante può fare accesso e operare nel network senza che sia necessario rendersi identificabile o essere autorizzato al momento della creazione dell’account, in quanto ogni user è individuato da un codice e agisce sotto pseudonimo. In questo sistema, è la schermata pubblica, per tutti i partecipanti al sistema, di tutte le transazioni dei singoli utenti, a fare da garante del sistema.
La seconda tipologia di registro distribuito prevede, invece, una entità centrale preposta alla validazione dei nuovi blocchi della catena, in quanto si tratta di un modello di blockchain privata, in cui tutti gli utenti devono essere preventivamente autorizzati (permissioned) per poter accedere al network.
Infine, vi è una terza tipologia, di tipo ibrido (c.d. consortium blockchains), che si pone quindi a metà strada tra le prime due poc’anzi descritte, e in cui la posizione dei nodes della rete non è la medesima, essendovene alcuni che assumono una posizione di controllo e di validazione delle transazioni compiute dagli altri, secondo un modello solo parzialmente decentralizzato.
A questo punto del discorso, appare evidente l’ingenuità: chi affiderebbe la trasparenza del mercato dell’arte, o il rilascio delle autentiche, ad un sistema, come il primo, in cui gli utenti sono anonimi e chiunque può iscriversi? Mentre il secondo sistema, quello della blockchain privata, semplicemente riprodurrebbe in forma 4.0 le stesse opacità del mercato e soprattutto del sistema del rilascio delle autentiche delle opere (per gli approfondimenti su questi meccanismi, estremamente specifici del mercato dell’arte, si permetta il rinvio a S. Segnalini, Dizionario giuridico dell’arte, Skira, 2° ed. agg. 2019) che dovrebbe invece, secondo i promotori delle tante start up che affermano di voler tracciare le opere nel mercato dell’arte tramite la blockchain, risolvere.
Con una battuta, per chiudere il discorso, si può dire che si passerebbe così dal sistema degli archivi (tanto vituperati per il potere che detengono nel rilascio delle autentiche), che sono centri di potere auto-organizzatisi e autoreferenziali (il che è potuto avvenire grazie alla poca chiarezza della normativa sulle autentiche, per l’appunto) nel mercato dell’arte, ad altri centri di potere, dello stesso tipo, quindi parimenti auto-organizzati, ma in catene di blocchi. Quasi un esempio negativo di neutralità tecnologica e di neutralità dei modelli aziendali (per citare due dei principali principi che devono essere sempre tenuti presenti nella regolazione dell’innovazione tecnologica). Perché poi, nel campo dell’arte, proprio quell’assenza di una terza parte fidata preposta all’attività di certificazione e validazione, che è un po’ il cuore di tutto il sistema delle Distributed Ledger Technology, onestamente suona un po’ inquietante, considerando quanto delicato sia ad esempio, solo per esemplificare, il processo di attribuzione di un’opera …
Per gli smart contract invece (ampiamente ‘saccheggiando’ stavolta un lavoro di Salvatore Luciano Furnari, Validità e caratteristiche degli smart contract e possibili usi nel settore bancario finanziario, in E. Corapi – R. Lener (a cura di), I diversi settori del Fintech. Problemi e prospettive), occorre viceversa tenere a mente cosa non sono!
Gli smart contract infatti non sono contratti di per sé; non sono quindi fonte di alcuna novità giuridica particolare, ma solo di un nuovo strumento tecnico che le parti possono scegliere per formalizzare un accordo e che, come anticipato, viene registrato sulla blockchain. La possibilità o meno di intervenire – senza che ciò sia eccessivamente dispendioso in termini di risorse anche e soprattutto tecniche — sull’esecuzione di uno smart contract, li differenzia in “deboli” e “forti” (questo per sottolineare come non sia del tutto corretta l’affermazione per cui uno smart contract è sempre e comunque immodificabile) .
Ma il punto più rilevante, per quanto qui interessa, è che per come gli smart contract vengono scritti da un punto di vista tecnico (sono infatti scritti in linguaggio di programmazione) non hanno affatto la caratteristica di agevolare lo scambio di promesse, quindi l’accordo, tra due parti. È stato infatti ben sostenuto nella dottrina citata come per tale motivo funzionino essenzialmente laddove i contratti abbiano la forma scritta come requisito essenziale e si tratti di contratti per adesione, contratti cioè predisposti da una sola parte e che lascino all’altra solo la possibilità di aderirvi o meno (come, ad esempio, molti contratti bancari e finanziari: il che ha permesso non a caso la rivoluzione Fintech).
Altra caratteristica che li rende una sorta di vending machine, ma infinitamente più sicura dei distributori automatici (che sono degli smart contract ante litteram), è la possibilità di collegarli tramite i c.d. oracles, a degli agenti esterni indipendenti che hanno il compito di individuare e verificare accadimenti relativi al mondo esterno: anche, ma non solo per tale caratteristica, apparirà allora evidente come gli smart contract non abbiano, dei contratti, nemmeno la caratteristica di vincolare solo le parti che decidono di concluderli, essendo strutturalmente destinati a interagire con un numero potenzialmente infinito di parti e soggetti. Il tutto con un congruo costo, non solo di programmazione (chiamato gas nella rete Ethereum, una sorta di fee per ogni comando che viene dato che si chiede alla rete di elaborare).
Ora, tornando al mercato dell’arte, non ci sembra proprio che in tale ambito vi siano contratti con queste caratteristiche — semmai il contrario: situazioni, come ben sanno tutti i professionisti che operano in tale mercato, che vanno negoziate puntualmente e lungamente tra le parti — , né tantomeno che abbia senso costruire, come pure alcune start up stanno facendo, complicati scenari di vendita parcellizzata delle opere d’arte, di cui si acquisterebbero i “token”, tramite appunto contratti conclusi smart contract (per farci cosa poi di questi token onestamente non è sempre chiaro, mentre credo sia ora più chiaro quanto dispendiosi e poco adatti al mercato dell’arte siano gli smart contract ).
Insomma, per concludere, sicuramente vi è uno spazio per l’Artech, ma solo se inteso come una applicazione del Fintech: ad esempio, introducendo applicazioni che consentono di rendere più semplici le transazioni, e di abbattere i costi di commissione, sulle piattaforme di vendita online di opere d’arte; oppure nell’ambito dei sistemi di raccolta di capitali, informatizzando la raccolta per sostenere progetti culturali (crowdfunding: su cui si permetta il rinvio a https://mirror.fchub.it/mi-chiamo-art-bond-la-mia-arma-e-il-crowdfunding/ ).
Tutto il resto, come si è cercato di spiegare in questo contributo, un po’ down-to-earth, è forse sopravvalutato: la blockchain, nel mercato dell’arte, così come in tanti altri ambiti, non è e non può essere il rimedio miracoloso per tutto.