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Perché gli investitori vendono i titoli delle banche, soprattutto europee?
Silvano Carletti
Carletti

Le banche europee hanno chiuso il 2018 con una flessione della quotazione dei loro titoli che in genere supera il 30%. È il ridimensionamento più grave dal 2011 e oltre il doppio della variazione parallelamente registrata dall’intero listino azionario.

Dopo una prima parte dell’anno caratterizzata da contenute variazioni in entrambe le direzioni, a partire (orientativamente) da maggio i corsi azionari hanno registrato una progressiva caduta. Alla fine dello scorso anno il rapporto tra quotazione e valore contabile (P/B, price to book ratio) si è posizionato poco sopra lo 0,70 (era a 1,10 alla fine dell’anno precedente). 

Da parte loro, i maggiori gruppi statunitensi hanno chiuso il 2018 con una flessione dei loro titoli quasi analoga (-24% circa) ma nel loro caso il P/B ratio risulta posizionato su livelli ben più elevati (intorno a 1,25).

Nelle prime settimane di quest’anno c’è stato un recupero molto limitato sia sul versante europeo sia su quello staunitense (crescita media delle quotazioni del 3,8% e del 9,5%, rispettivamente). Nell’insieme, l’andamento dei titoli sembra evidenziare una generale situazione di difficoltà del settore bancari, che assume toni più gravi nel contesto europeo. 

La Borsa non crede ai bilanci?

L’indicazione espressa dal mercato azionario per i titoli bancari risulta in apparente contraddizione con le informazioni affluite negli ultimi mesi. Come evidenziato dai bilanci 2018 in corso di pubblicazione, pur con qualche eccezione il risultato contabile si presenta in contenuto progresso per effetto soperattutto di un miglioramento della qualità dell’attivo (perdite su crediti ridotte) a fronte di una sostanziale stagnazione dei ricavi. Su quest’ultimo aggregato pesa la persistente debolezza del margine d’interesse.  

Più brillanti i consuntivi 2018 (già pubblicati) delle principali banche statunitensi: i sei gruppi maggiori hanno congiuntamente conseguito utili per circa 120 mld di dollari, un ammontare mai raggiunto in precedenza. Una parte del merito di questa crescita, tuttavia, si deve alla riforma fiscale varata dall’amministrazione Trump.

Un messaggio tranquillizzante è venuto anche dalla periodica rilevazione dell’EBA (European Banking Authority, Risk Dashboard. Data as of Q3 2018) che copre “a 360 gradi” quasi 200 realtà bancarie operanti in Europa. Tra le altre cose, questo documento evidenzia che il processo di rafforzamento patrimoniale può dirsi concluso con un CET1 ratio in media pari al 14,5%.

La ripresa economica e importanti interventi straordinari hanno parallelamente determinato un miglioramento sostanziale della qualità dell’attivo: alla fine del settembre scorso l’incidenza dei prestiti irregolari sul totale dei prestiti in portafoglio era in media pari al 3,4%, con una discesa di 0,7 punti percentuali in soli nove mesi e una riduzione da 7 a 3 dei paesi in doppia cifra.

Rassicuranti anche le indicazioni fornite dall’esercizio di simulazione (stress test) condotto dall’EBA nel novembre scorso con l’obiettivo di accertare dinamicamente la solidità del sistema bancario continentale. L’esercizio, replicato con cadenza biennale, ha questa volta coinvolto i 48 principali gruppi creditizi europei (di cui 4 italiani).

I dati elaborati sono stati tratti dai bilanci al 31 dicembre 2017 e il 2018-20 è l’arco temporale della simulazione. Il test non prevedeva valori di soglia minimi, ma le indicazioni da esso fornite sono parte integrante della valutazione SREP (Supervisory Review and Evaluation Process) che la vigilanza europea effettua annualmente con l’obiettivo di evidenziare a ciascuna banca l’esposizione ai diversi tipi di rischio e suggerire le eventuali azioni da intraprendere per limitarne l’impatto.

Secondo questo test in uno scenario economico fortemente negativo (piena recessione nel 2018-19 e limitato recupero nel 2020), oltre ad una riduzione di ricavi, si determinerebbero perdite per oltre €500 mld, di cui circa 350 mld riferibili al portafoglio prestiti. Ne deriverebbe in media una riduzione del CET1 ratio di oltre 400 punti base, dal 14,5% iniziale al 10,3%.

È importante precisare che alcuni gruppi europei di rilevante dimensione e da tempo in una condizione di conclamata debolezza (tra essi, uno italiano e uno spagnolo) sono stati esonerati dalla partecipazione al test perché impegnati nell’attuazione di programmi di ristrutturazione e quindi già monitorati dalla Bce.

Forte impatto negativo dal mutamento della previsione economica 

Le informazioni finora sinteticamente fornite non consentono di comprendere l’andamento decisamente sfavorevole registrato dai titoli bancari nel 2018. Tra le possibili chiavi di lettura tre sembrano da preferire.

La prima è che l’investitore azionario assume le sue decisioni facendo riferimento più alle prospettive che ai consuntivi. In secondo luogo, alcuni dati sono suscettibili di letture diverse; infine, le dinamiche del circuito bancario oltre che in un’ottica congiunturale devono essere esaminate anche considerando i processi di trasformazione di lungo periodo. 

Questo tipo di considerazioni, comunque, possono solo limitatamente spiegare specifiche situazioni nazionali quali, ad esempio, quella della Germania. Nel 2018 i titoli dei due maggiori gruppi bancari tedeschi  hanno subito una flessione del 55% circa, una contrazione che in un caso ha determinato anche la “retrocessione” al MDAX, l’indice dei titoli tedeschi a media capitalizzazione. 

Per quanto riguarda il primo tipo di argomentazione è evidente il riferimento al mutato tono della previsione economica. Gli ultimi dati ufficiali indicano un andamento ancora tonico negli Stati Uniti (+3,4% a/a nel III trimestre 2018) e un evidente rallentamento nell’area euro (+1,6% a/a nello stesso trimestre). Le aspettative di crescita per il biennio 2019-20 sono state quasi unanimemente ridimensionate.

I paesi che riescono a sfuggire a questo rallentamento sono decisamente pochi e tra essi non figurano quelli del continente europeo. Per gli analisti il rischio è prevalentemente downward (possibile revisione al ribasso) anche a causa dell’incertezza alimentata da fattori non economici, tra i quali il duro confronto Stati Uniti – Cina e la difficile evoluzione della Brexit.

La minore penalizzazione dei titoli degli istituti statunitensi rispetto a quelli europei si deve a molte circostanze: il rallentamento economico è negli Usa meno intenso di quanto avviene altrove; il coinvolgimento delle banche nel finanziamento dell’economia è sensibilmente inferiore per il più ampio spazio del mercato dei titoli; nell’ambito dei ricavi è maggiore l’importanza di quelli svincolati dall’intermediazione creditizia.

A questo si deve aggiungere che, diversamente dall’Europa, il processo di superamento della fase di politica monetaria eccezionalmente accomodante (Quantitative Easing) è ben avviato negli Stati Uniti con effetti che cominciano ad essere evidenti: rispetto al dicembre 2015 (primo aumento dei tassi di riferimento) nel terzo trimestre 2018  il rendimento medio degli attivi bancari fruttiferi risulta aumentato negli Stati Uniti di circa un decimo (dal 3,02% al 3,33%). 

Redditività insufficiente 

Una seconda strada da percorrere per comprendere la negativa performance dei titoli bancari passa attraverso una più approfondita lettura dei dati relativi alla redditività. I 50 principali gruppi europei gestiscono congiuntamente attivi bancari per un totale di €28,7 trn, il 60% dell’intero circuito europeo, Nel 2017 questi operatori hanno conseguito un RoE netto (Return on Equity) pari al 7,1%, ben al di sopra del 3,9% conseguito l’anno precedente e il miglior risultato dell’ultimo quinquennio.

Malgrado questo miglioramento, tuttavia, il rendimento conseguito è ancora ben al di sotto del costo del capitale (CoE, Cost of Equity). Nel triennio 2015-17 al di sopra del 10% (il CoE stimato per il triennio) si è posiziona un gruppo di operatori che rappresenta (in termini di attivo) poco più di un decimo dell’intero sistema. Una quota doppia del sistema si trova nella condizione opposta: consegue una redditività modesta e dotazione patrimoniale ancora non adeguata, risultando quindi esposta al rischio di dover procedere ad un aumento di capitale.

Altro aspetto sfavorevole, forse quello più grave, emerge dalla considerazione di come si è determinato il recupero della redditività: nel 2017 l’utile netto dei 50 maggiori gruppi europei è ammontato a circa €119 mld, 63 mld in più rispetto al consuntivo del 2013. A fronte di un contributo dell’attività operativa stagnante (anzi in leggera flessione) l’incremento si deve a poste di bilancio in larga misura una tantum (riduzione delle svalutazioni nel portafoglio, proventi straordinari, guadagni da cessione di attività, minore ammontare delle sanzioni comminate dall’autorità, etc).

In conclusione, se non venissero seguiti nuovi percorsi gestionali e disegnate nuove strategie, il consuntivo ipotizzabile nel prossimo futuro per le istituzioni bancarie europee sarebbe probabilmente non troppo diverso da quello insoddifacente visto nel quadriennio 2013-16 (RoE poco sopra il 4%). In altre parole il divario tra RoE e CoE potrebbe crescere invece di ridursi. 

Si riduce il ruolo delle banche nel circuito finanziario 

Un terzo ordine di considerazioni fa riferimento ai processi di trasformazione strutturale in atto nel circuito finanziario, processi che da tempo stanno ridimensionando  il ruolo delle banche, provocando inevitabili ricadute sul flusso dei ricavi. 

In questi anni il mercato dei titoli corporate ha accresciuto sensibilmente e nella generalità dei paesi europei il suo contributo al finanziamento delle imprese, soprattutto quelle di maggiore dimensione https://mirror.fchub.it/addio-alle-banche-le-imprese-si-finanziano-altrove/. Il fenomeno è stato certamente favorito da particolari condizioni di mercato tra cui la persistente situazione di abbondante liquidità monetaria, la ricerca di investimenti finanziari più remunerativi di quanto offerto dai titoli pubblici, il programma di acquisto di titoli societari condotto dalla Bce.

Molte circostanze lasciano pensare che questo avvicinamento al modello anglosassone di finanziamento delle imprese potrebbe in gran parte essere mantenuto anche quando le attuali particolari condizioni di mercato saranno archiviate.   

C’è poi da considerare lo sviluppo del cosiddetto shadow banking. Secondo un recente documento della Bce lo spazio occupato dalle istituzioni finanziarie tradizionali (banche, assicurazioni, fondi pensione, controparti centrali) è pari al 60% dell’intero circuito finanziario europeo. Allo shadow banking viene attribuito il restante 40%, per un terzo circa costituito dalle diverse tipologie di fondi d’investimento.

Dopo la fase di intenso sviluppo conosciuta nel triennio 2012-15 (quasi +9% l’anno), negli anni più recenti la crescita di questa componente del sistema finanziario si è sostanzialmente arrestata. Seppure in parte anche emanazione di operatori bancari, è comunque vero che lo shadow banking sottrae reddito al circuito bancario ufficiale. 

Il ridimensionamento del ruolo delle banche procede anche lungo altre linee. Uno è quello dell’apertura del sistema dei pagamenti ad operatori finora estranei al circuito finanziario (da Google ad Amazon). C’è poi lo sviluppo degli operatori fortemente specializzati su singole aree di prodotti in precedenza di competenza esclusiva (o quasi) delle banche. Più recente lo sviluppo della cosiddetta  tecnofinanza (fintech), vale a dire la fornitura di servizi e prodotti finanziari attraverso le più avanzate tecnologie dell’informazione. 

Necessario un ripensamento strategico

Tutti questi sviluppi hanno un impatto non trascurabile sui ricavi in una fase in cui forte risulta la necessità di investimenti (quelli informatici sono pronosticati in ulteriore crescita). Ci si aspetterebbe quindi un diffuso ripensamento del disegno strategico, con avvio di processi di diversificazione e/o di riconsiderazione del portafoglio attività.

Questo tipo di reazione è avvenuto ma solo in misura contenuta: tra il 2013 e il 2017 i 50 maggiori gruppi bancari europei hanno annualmente ceduto attività per circa €6 mld acquisendone parallelamente per poco meno di €4 mld.Un flusso annuo di circa 30 operazioni pari nel complesso a  €10mld. Anche trascurando il fatto che quest’importo andrebbe depurato delle duplicazioni (in molte operazioni la controparte è un altro importante gruppo bancario europeo), si tratta di una grandezza complessivamente marginale se confrontata con i circa €28,7 trn di attivo totale di questi operatori. 

Questa modesta attività di diversificazione di attività si è accompagnata ad un altrettanto modesta correzione del focus geografico. Il numero e il rilievo delle operazioni di fusione e acquisizione transfrontaliere è risultato negli ultimi anni molto ridotto. L’ultima acquisizione cross-border di un certo rilievo realizzata in Europa è stata quella che ha avuto (2015) per oggetto l’inglese TSB (630 sportelli, totale attivo di £ 28 mld) da parte del gruppo spagnolo Banco de Sabadell (esborso di £1,7 mld).

Se si restringe l’analisi alla sola eurozona per trovare acquisizioni transfrontaliere di importo pari ad almeno €500 mln bisogna risalire al 2011. 

La resistenza delle autorità nazionali

La moneta unica, la creazione di un passaporto finanziario europeo e i progressi dell’Unione bancaria non si sono rivelati argomento sufficiente per attivare un importante flusso di operazioni cross-border. A determinare questa situazione sono state molto circostanze che spesso è difficile qualificare come causa o come effetto. Il processo di Unione bancaria per una parte ha raggiunto importanti obiettivi (costituzione di un sistema unico di vigilanza), per un’altra parte procede ma solo molto lentamente (sistema di protezione dei depositi). Infine, è ancora in una fase iniziale l’armonizzazione di alcune disposizioni vitali per l’andamento del credito (ad esempio, la definizione di una legge fallimentare europea).

A complicare non poco la situazione è anche l’evidente orientamento di molte autorità a perseguire ancora la costituzione di “campioni nazionali” o a difendere quelli esistenti in difficoltà. Le fusioni e acquisizioni domestiche risultano meno rarefatte di quelle transfrontaliere ma negli ultimi anni prevalentemente confinate alla sistemazione di situazioni di evidente insolvenza. Nel caso delle operazioni domestiche un qualche ruolo di freno l’ha giocato la resistenza delle autorità a consentire una crescita dimensionale ulteriore degli operatori maggiori.  

In definitiva, in una fase storica in cui il circuito bancario è esposto a rilevanti  mutamenti, il sistema bancario europeo dimostra una limitata capacità di reazione e di innovazione, sia gestionale sia strategica.

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