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STRATEGIE EUROPEE
Per la Germania è la Cina il nemico numero 1

Per l'Unione Europea è vitale reagire alla politica  commerciale cinese difendendo il motore industriale del continente, cioè la Germania. Ecco alcune ricette per andare oltre i dazi

Paola Pilati

A pochi giorni dalle elezioni tedesche, cresce l’ansia sul destino politico della più grande economia europea, da due anni in recessione. Le fragilità del modello tedesco possono davvero segnare in negativo il futuro di tutta l’Unione Europea? Quello che ne era prima il primo motore industriale, può trasformarsi oggi nella sua palla al piede? Il nuovo governo di Berlino saprà affrontare le riforme necessarie per evitare la deriva verso la decrescita, tanto più rischiosa oggi che l’Europa è esposta ai colpi della guerra dei dazi che Donald Trump ha intrapreso con tutto il mondo e della concorrenza della Cina?

Il Financial Times, prendendo spunto da un lavoro del Fondo monetario si mostra tutt’altro che pessimista: l’economia della Germania non è affatto debole, anzi ha solide fondamenta, sostiene il quotidiano britannico. Con quali argomentazioni?

La struttura industriale tedesca ha saputo adattarsi con flessibilità alla fine delle forniture energetiche russe, che hanno colpito le industrie energivore come la chimica e la metallurgia, puntando su settori a più alto valore aggiunto – elettronica, industria aeronautica e della difesa – che ne hanno preservato la forza competitiva soprattutto nel settore delle tecnologie verdi.

La Borsa tedesca è tutt’altro che l’immagine della crisi, visto che il DAX nel 2024 è cresciuto meglio degli indici più importanti, S&P500 incluso, grazie alla forza internazionale delle sue magnifiche sette: SAP, Siemens, Siemens Energy, Allianz, Deutsche Telekom, Rheinmetall e Munich Re.

A mancare, semmai, è la spinta dell’investimento pubblico, bloccato dai vincoli delle regole sul debito. In prospettiva, poi, si fa sempre più critico il fattore demografico. Il mix tra popolazione che invecchia e immigrazione politicamente scottante potrebbe condurre nel breve a una mancanza delle figure professionali necessarie. Di qui alla narrazione del suo irreversibile declino industriale, però, ce ne corre.

Ma è strano che IMF e FT sorvolino sul tema della concorrenza cinese, che è invece il focus di un rapporto del think tank europeo CER – Centre for European Reform – che si intitola “How german industry can survive the second china shock” ed è assai meno ottimista.

Il messaggio che il rapporto lancia con forza è che l’industria tedesca, e quella dell’Europa nel suo complesso, possono pagare un prezzo molto alto se non reagiscono all’espansionismo commerciale cinese.

Il punto di partenza è che l’industria cinese è pesantemente sovvenzionata dallo Stato, mentre la domanda interna non è abbastanza vivace per assorbirla (i consumi privati rappresentano il 68% del Pil negli Usa, il 52% in Ue, solo il 40% in Cina, sostiene il rapporto CER). La spinta alla crescita in diversi settori industriali – a partire da quelli in cui ha subìto a lungo le importazioni di partner come Germania e Usa – non può che trovare, quindi, sbocco su altri mercati.

Tra eccesso di capacità produttiva e sovvenzioni, la Cina non solo ha smesso di assorbire merci occidentali in casa, ma ha visto crescere il suo surplus commerciale negli ultimi anni con un peso crescente in Europa ed è diventata un concorrente insidioso per i produttori europei su tutti gli altri mercati, con un effetto spiazzamento di cui fa le spese soprattutto la Germania.

L’Europa ha risposto alla politica dei sussidi cinesi con le armi che ha a disposizione secondo le regole del WTO: all’invasione delle auto elettriche prodotte in Cina ha reagito imponendo dei dazi che vanno dal 7,8% per la Tesla al 35,3 % per SAIC Motor, oltre a quelli base del 10%. Sebbene la Germania sia uno dei paesi più colpiti dalle importazioni cinesi, il cancelliere Olaf Scholz è stato tra i pochi a non votare questo provvedimento.

Nel 2024 le esportazioni cinesi sono cresciute del 12% in volume mentre il tasso di crescita del commercio globale si è fermato al 3%. Il surplus commerciale cinese nel settore manifatturiero è del 10%: la Cina è un esportatore competitivo non solo nelle auto elettriche ma anche nei macchinari industriali, sta crescendo nel settore aeronautico e in quello dei semiconduttori, mettendosi in rotta di collisione proprio con la Germania e il suo modello economico, dove la manifattura rappresenta i 19% del Pil.

Se ancora nel 2019 la Cina importava un milione di auto, quattro anni dopo è diventata esportatore netto (con una capacità produttiva che sta per raggiungere i 50 milioni di auto, cioè metà della domanda globale di auto). L’export di auto della Germania, intanto, è crollato di un milione di unità dai livelli pre-covid.

Che cosa potrebbe succedere se anche in altri settori (per esempio, turbine eoliche, batterie elettriche, pannelli solari) la concorrenza della Cina diventasse altrettanto dominante?

Il Rapporto del CER offre altre cifre alla riflessione. Il crollo delle esportazioni tedesche in Cina ha già comportato una perdita dello 0,5% di Pil per l’economia tedesca e potrebbe ulteriormente peggiorare. L’export di auto, macchinari e prodotti chimici, rappresentava nel 2023 il 40% del totale dell’export tedesco. Non reagire subito vuol dire mettere in pericolo crescita, posti di lavoro, vantaggi tecnologici.

Con quale strategia reagire? Un primo passo deve essere quello di fare chiarezza sui dati. Il CER segnala che nel 2022 la Cina ha unilateralmente cambiato la metodologia di calcolo per stimare il surplus commerciale all’interno del suo saldo delle partite correnti: ne risulta un totale scollegato dai dati delle dogane. Inoltre calcola come proprio deficit commerciale produzione e vendite di fabbriche straniere dentro i propri confini. Il risultato, osserva il CER, è che il surplus commerciale da un trilione di dollari scompare dalle statistiche. La Germania dovrebbe essere la prima a fare pressione sul Fondo Monetario per ristabilire la trasparenza dei dati e ottenere la riduzione del surplus, invitando Pechino a stimolare la domanda interna.

Per contrattaccare sul terreno commerciale, il suggerimento del Rapporto è di mettere in campo un’operazione “acquista europeo” sulle auto. Un sistema di sussidi per i consumatori, costruito in modo creativo per non infrangere le regole del WTO e modulato affinché sia al livello dell’intera Unione e non solo nei singoli mercati nazionali.

Per esempio, la Commissione potrebbe approvare schemi di sussidi subordinandoli alla loro aderenza a criteri che favoriscano il “made in EU”, come standard sociali, produzioni a basse emissioni e via dicendo, sul modello di quanto fatto in Francia.

Un sistema da associare al precedente può essere quello di usare lo European Sustainable Product Regulation per imporre delle quote minime di componenti a basse emissione di CO2 o sgravi fiscali per chi le rispetta. L’accusa di discriminare prodotti non europei potrebbe poi essere evitata con degli accordi con paesi extra-europei per l’accesso reciproco agli schemi di sussidi.

Quanto alla Germania, dovrebbe preoccuparsi per prima di plasmare una nuova politica industriale europea che non sia la somma delle diverse politiche nazionali, spesso incoerenti tra di loro oltre che inutilmente costose. Il Rapporto Draghi ha indicato al direzione. Serve un supporto finanziario.

Come aggirare la resistenza dei paesi europei a finanziare un nuovo “fondo sovrano” con questo obiettivo? Il CER propone di utilizzare le risorse che provengono dalle tariffe con cui l’Unione si protegge dall’import cinese indirizzandole verso un fondo di politica industriale. In questo modo gli Stati membri non dovrebbero sborsare neanche un euro oltre quello che già versano per il funzionamento dell’Unione.

Di quale cifra si parla? Si stima che il flusso delle tariffe attualmente in vigore potrebbe generare ogni anno 2-3 miliardi di euro e aumentare ampliando il ventaglio dei prodotti. Ben lontano dalla cifra di 800 miliardi ritenuta necessaria dal Rapporto Draghi. Ma sarebbe comunque un chip per iniziare.

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