A fianco delle istituzioni maggiori, in tutti i paesi operano decine di intermediari di dimensione minore. La loro dinamica è in questi anni sottoposta a forti pressioni, non ultime quelle indotte dal sistema di vigilanza unico europeo. La recente riforma del credito cooperativo ha avviato un processo di semplificazione tra le banche minori italiane.
Con l’attivazione, il 4 novembre 2014, del MVU (Meccanismo di Vigilanza Unico; SSM, Single Supervisory Mechanism nella dizione inglese), le banche europee sono state divise in due raggruppamenti: le istituzioni significative (SIs, Significant Institutions), monitorate direttamente dalla Banca Centrale e le altre istituzioni (LSIs, Less Significant Institutions) sulle quali, invece, vigilano le autorità nazionali (NCAs, National Competent Authorities) con le quali la Bce mantiene una continua interazione.
Le SIs sono attualmente 117. Trattandosi di gruppi considerati nella loro dimensione consolidata, le istituzioni effettivamente vigilate dalla Bce sono molto più numerose: ad esempio, nel caso dell’Italia, le SIs sono 12 ma le aziende bancarie monitorate superano le 140 unità.
L’inclusione di un gruppo bancario nella lista delle SIs è il risultato di una valutazione che tiene conto di più circostanze, alcune delle quali di natura puramente quantitativa: dimensione assoluta (attivo consolidato superiore a €30 miliardi), dimensione relativa (rilevanza rispetto alla dimensione del Paese), significativa attività cross border (la circostanza si considera verificata se le attività/passività in un altro paese dell’eurozona eccedono il 20% del Pil di questo Paese). Altri aspetti tenuti in considerazione sono l’aver richiesto/ricevuto un sostegno pubblico o essere caratterizzati da un elevato livello di interconnessione con il resto del circuito finanziario. Il SSM deve comunque vigilare sui tre maggiori operatori di ciascun Paese dell’eurozona. La Bce può decidere di monitorare anche un gruppo bancario che non risponda ad alcuno dei criteri appena esposti.
L’intreccio di questi criteri serve a fronteggiare le profonde diversità economico-finanziarie rilevabili tra i paesi dell’eurozona. Nel caso dell’Italia è la dimensione dell’attivo a determinare l’inclusione tra le SIs; per le banche di Cipro, invece, il criterio che prevale è quello della rilevanza dell’attivo totale rispetto al Pil del Paese (oltre il 20%) mentre nel caso della Lettonia risultano selezionati i gruppi al vertice del sistema bancario nazionale. Complessivamente, alla fine del 2018 almeno 30 SIs avevano un attivo totale inferiore ai €30 mld.
Dell’insieme delle banche significative, ovviamente fanno parte gli 8 gruppi europei giudicati G-SIBs (Global Systemically Important Banks) dal Financial Stability Board, cioè operatori le cui vicende sono di assoluto rilievo per la stabilità del circuito bancario globale. Incluse tra le SIs sono anche le D-SIBs, cioè istituzioni con una significativa rilevanza sistemica nazionale. [Nel caso dell’Italia le D-SIBs sono 3 – UniCredit, Intesa Sanpaolo e Banco BPM- con il primo gruppo considerato anche G-SIB].
Se le SIs gestiscono il 75-80% circa degli attivi bancari dell’area euro (vale a dire €23-24mila miliardi), alle LSIs è riconducibile il restante 20-25% (circa €6mila miliardi). L’insieme delle LSIs è costituito da più di 3mila banche, per la quasi totalità istituzioni stand alone.
Una nota della Bce relativa al 2016 ha evidenziato che il 70% circa delle LSIs è localizzato in Germania (53%) e Austria (16%). Nel caso della Germania si tratta di circa 1.500 intermediari, soprattutto 400 casse di risparmio (Sparkassen) e quasi 900 istituti di credito cooperativo (Volksbank e Raiffeisenbank). All’interno di questi due raggruppamenti si ritrovano sia operatori con attivo appena superiore a €100 mln, sia operatori con attività di €30-40 miliardi.
In altri Paesi (ad esempio la Francia) non mancano le banche di dimensione minore, ma sono in gran parte consolidate in gruppi di rilevanza sistemica (BCPE, Crédit Agricole) e non sono quindi censite tra le LSIs.
Fino a qualche mese fa anche la struttura bancaria italiana era considerata piuttosto densa. In effetti, come indicato nell’ultima relazione della Banca d’Italia, alla fine del 2018 erano attivi in Italia 405 intermediari (93 in meno rispetto a tre anni prima): 327 banche non appartenenti a gruppi, 100 banche incluse in 58 gruppi bancari e 78 filiali di banche estere.
Con la riforma del credito cooperativo il sistema ha registrato una considerevole semplificazione: a maggio 2019 il numero dei gruppi bancari risulta sceso a 52, mentre le banche individuali non appartenenti a gruppi si sono ridotte a 104. Un nuovo gruppo di credito cooperativo (Cassa Centrale Banca) è stato inserito tra i gruppi significativi, affiancandosi all’altra holding del settore. La quota delle attività del sistema attribuibile alle SIs è cosi salita dal 74% all’81%. Rispetto ad altre realtà europee le banche minori italiane si muovono con maggiore indipendenza e minore coordinamento con istituzioni dal profilo analogo (casse rurali, banche popolari).
L’aggiornamento della lista delle SIs e di quella delle LSIs determina frequenti passaggi da un insieme all’altro. Pur se non formalmente definito, è da tempo esistente un terzo raggruppamento, quello delle “LSIs a priorità elevata”. Ne fanno parte operatori le cui dimensioni non sono lontane da quelle previste per la classificazione come istituto significativo oppure istituti cui le autorità attribuiscono una significativa rischiosità intrinseca. Il MVU tende a mantenere in questo raggruppamento almeno tre operatori bancari per ciascun Paese.
All’atto della sua costituzione, il MVU prevedeva per le SIs l’applicazione di una metodologia unitaria. Per le LSIs l’attività di vigilanza risultò delegata alle autorità nazionali e questo si è tradotto in una gestione differenziata nei diversi paesi. Superata la fase di avvio, la Bce si è data l’obiettivo di restituire una tendenziale unitarietà alla sua azione di vigilanza. Dal gennaio 2018 la supervisione delle LSIs, pur continuando ad essere affidata alle autorità nazionali, viene svolta seguendo criteri tendenzialmente uniformi.
Lo spazio di autonomia delle autorità nazionali risulta ridotto ma non annullato. Di fronte a questa evoluzione non manca chi si chieda se la riduzione della “distanza” nel trattamento delle SIs e delle LSIs non sia andata troppo avanti. Nel procedere a questo “livellamento del terreno di gioco” si è cercato di rispettare un criterio di proporzionalità, vale a dire svolgere sugli istituti di minore dimensione un’attività di vigilanza che richieda adempimenti ampiamente inferiori a quelli previsti ceteris paribus per una istituzione significativa, contenendo quindi il totale dei costi di compliance.
Si tratta di una questione piuttosto complessa. Un istituto di dimensioni minori, se propone rischi sistemici decisamente contenuti, nondimeno deve essere sottoposto ad una adeguata vigilanza, non solo per ragioni di parità concorrenziale ma anche perché ciascuno di questi istituti è comunque titolare di migliaia di rapporti finanziari, quasi sempre localizzati in un territorio limitato (l’acronimo LSIs viene anche tradotto come Local Significant Institutions).
D’altra parte, però, è altrettanto vero che gli oneri necessari per adempiere agli obblighi posti dalla normativa hanno in larga misura la natura di costi fissi. Si registrano così “diseconomie di compliance a regole sempre più complesse” che pesano sulla redditività delle istituzioni di credito minore. La tecnologia e il rinnovamento organizzativo potranno rendere più compatibili i due obiettivi (adeguatezza dei controlli e riduzione del loro onere), ma non si tratta di un percorso facile.
Negli Stati Uniti l’esistenza di un rilievo sistemico è discriminante decisamente importante: i grandi gruppi sono soggetti ad una “vigilanza rafforzata” mentre le banche medio/piccole sono destinatarie di un regime prudenziale semplificato che elude una serie di requisiti (ad esempio in materia di liquidità e leverage). Merita essere sottolineato che nel caso statunitense la grande banca è quella con un totale attivo superiore a 250 miliardi dollari e/o con esposizione in valuta estera superiore a 10 miliardi di dollari, oppure è una banca regionale con attivo tra 50 e 250 miliardi di dollari.
In Giappone sotto molti aspetti la distinzione è anche più netta essendo individuate due sole macro-categorie di banche: quelle attive a livello internazionale e quelle non attive a livello internazionale. Queste ultime sono soggette a regole domestiche che, sebbene non distanti dagli standard di Basilea, presentano comunque importanti differenze (ad esempio, requisiti minimi di capitale meno stringenti).
Pur con qualche attenuazione, invece, nel caso europeo il legislatore ha adottato di fatto un approccio del tipo “one size fits all”, in altre parole si tende ad applicare anche alle banche less significant disposizioni disegnate per le banche significant. Inoltre, come già osservato, la distinzione tra le due categorie di istituti è ben più tenue, a cominciare dalla soglia dimensionale.
Il tema della proporzionalità è quindi molto sentito e frequenti sono gli interventi correttivi. L’ultimo in ordine di tempo è quello previsto nel cosiddetto Pacchetto bancario appena approvato: per le istituzioni piccole e meno complesse (attivo totale inferiore a €5 miliardi) l’Eba (European Banking Authorithy) procederà ad una riduzione dell’attività di reporting che consenta una riduzione dei costi tra il 10% e il 20% e definirà un regime semplificato per la gestione della liquidità di lungo periodo (NSFR, Net Stable Funding Ratio)
Informazioni di sintesi sul profilo economico delle banche minori non sono facili da reperire. Un confronto tra SIs e LSIs è, almeno nel caso italiano, poco espressivo: due terzi dell’attivo attribuibile alle SIs (nell’insieme €2.400 mld circa), infatti, sono di competenza dei due gruppi maggiori, operatori che si caratterizzano per un livello di diversificazione geografica e articolazione del portafoglio attività particolarmente elevato.
Facendo riferimento ai dati della Banca d’Italia sulle banche meno significative, il primo aspetto da evidenziare è quello di una relativa solidità patrimoniale: alla fine del 2018 il loro CET1 ratio (Common Equity Tier 1, rapporto tra il capitale di migliore qualità e attivo ponderato per il rischio) risultava in media pari al 16,5%, oltre tre punti percentuali al di sopra del dato medio di sistema.
La valenza positiva di questo dato è però indebolita da altri fattori, il primo dei quali riguarda la redditività. Le LSIs italiane hanno chiuso il 2018 con un incremento del RoE di 2,4 punti percentuali (al netto dei proventi di natura straordinaria) in gran parte dovuto al minore ammontare delle rettifiche di valore nel portafoglio prestiti. Malgrado questa correzione, il risultato economico conseguito continua a risultare modesto (4%).
Nel valutare questo dato si devono considerare due tipi di circostanze. La prima (ovvia) è che la forte dotazione patrimoniale contribuisce a deprimere il RoE. Al contempo è però chiaro che esiste un problema di modello di business, con l’intermediazione creditizia tradizionale motore dominante del conto economico (oltre al margine d’interesse pari a oltre 2/3 dei ricavi totali anche metà circa delle commissioni attive). Come tipico delle banche prevalentemente retail, i costi sono piuttosto rigidi (sportelli e personale) e i risparmi acquisiti vengono destinati in gran parte al potenziamento delle dotazioni informatiche. Considerato lo scenario finanziario prevalente non sorprende, quindi, che lo scorso anno oltre il 10% delle banche meno significative italiane abbia chiuso l’esercizio in perdita.
Un secondo aspetto di debolezza è individuabile nel rilievo del portafoglio titoli, quasi esclusivamente costituito da titoli pubblici. In larga misura si tratta della conseguenza dello strutturale prevalere della raccolta al dettaglio rispetto agli impieghi (nel febbraio scorso tale eccesso era prossimo al 30%). Alla fine del 2018, l’insieme dei titoli pubblici era pari al 21% del totale dell’attivo delle LSIs, quasi il doppio del già elevato dato medio del sistema (11,5%). Da qui un più ampio impatto negativo dall’eventuale rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato.
Per attenuare questo rischio nel 2018 è raddoppiata la quota di questi titoli iscritti in bilancio al costo ammortizzato (74% rispetto al 56% rilevabile per il sistema). Malgrado questo, una recente simulazione condotta dalla Banca d’Italia ha evidenziato che un aumento di 100 punti base dell’intera curva dei rendimenti dei titoli di Stato provocherebbe una riduzione del CET1 ratio di queste banche di 65 punti base.
La terza criticità riguarda la qualità del portafoglio prestiti. Alla fine dello scorso anno l’incidenza su base lorda dei prestiti deteriorati risultava per le LSIs pari all’11,6% (8,7% la media del sistema). Per il 6,1% si tratta di sofferenze, mentre l’apporto delle inadempienze è pari al 5%. Su base netta le esposizioni deteriorate pesano nel portafoglio per il 6,4%. La copertura delle posizioni deteriorate risulta prossima al 49%, 4 punti percentuali al di sotto del dato di sistema.
Le LSIs hanno da tempo intrapreso un processo di riqualificazione del portafoglio prestiti: nell’ultimo triennio i loro prestiti deteriorati sono diminuiti di oltre un terzo e il tasso di copertura è aumentato di circa 6 punti percentuali. A questo risultato ha contribuito l’intervento della Banca d’Italia che lo scorso anno ha spinto circa 50 aziende di credito minori a mettere a punto programmi pluriennali (giugno 2018- dicembre 2021) finalizzati a ridurre lo stock dei finanziamenti deteriorati di almeno un quarto.
La dimensione tipica di questi istituti rende poco praticabile l’ipotesi di una gestione inhouse dei prestiti irregolari. Anche la strada della cessione ad operatori specializzati si rivela, tuttavia, complessa. Per realizzarla, infatti, è necessario che un certo numero di istituti costituisca un consorzio cui conferire le esposizioni deteriorate (di tipologia tendenzialmente simile) per costituire portafogli di dimensione in linea con la prassi di questo mercato. Nelle ultime settimane la stampa ha dato notizia della costituzione di due di questi consorzi cui hanno aderito 15-20 banche ciascuno e che sta procedendo in entrambi i casi alla cessione di prestiti deteriorati per un ammontare nominale di €1,6-1,8 miliardi.