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Oltre il QE? La sfida del coordinamento monetario e fiscale nell’Eurozona

Gli episodi di inflazione e di stagflazione che seguirono gli anni ‘70, le rivendicazioni salariali e gli shocks petroliferi, indussero in molti paesi la convinzione che fosse meglio separare la gestione della politica monetaria da quella fiscale, attribuendo alla prima il controllo dell’inflazione e alla seconda la responsabilità di stabilizzare il ciclo economico e di gestire al meglio il debito pubblico. Oggi, alla luce di quanto successo in Giappone e negli Stati Uniti, ci si chiede se la politica monetaria da sola possa far ripartire in modo stabile la crescita o se, piuttosto, non debba essere accompagnata da una robusta riduzione permanente delle imposte (data l’elevata pressione fiscale media nell’eurozona). È ormai chiaro che o ci muoviamo verso un completamento fiscale (e finalmente politico) dell’eurozona, oppure il futuro vedrà ridursi (e di molto) l’area in cui gli euro continueranno a circolare ed avere corso legale.

Giorgio Di Giorgio
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Recentemente, la nota parabola di Milton Friedman di un elicottero rifornito di moneta dalla banca centrale e pronto a distribuirla in modo uniforme sulla cittadinanza è tornata prepotentemente alla ribalta nel dibattito sulla politica economica e monetaria dell’Eurozona.

In realtà, già Ben Bernanke, prima di prendere il timone della Federal Reserve, la aveva riproposta come una possibile soluzione per aiutare il Giappone ad uscire dalla lunga fase di crescita stagnante ed inflazione inesistente. La lezione era nota: i modelli tradizionali statici (del tipo IS-LM) indicavano chiaramente la maggiore efficacia di una politica combinata fiscale e monetaria per ridare stimolo all’economia, con l’espansione monetaria incaricata di sterilizzare gli effetti di spiazzamento sul tasso di interesse e sulla spesa privata normalmente associati ad una politica di deficit spending. E storicamente il finanziamento con base monetaria della spesa pubblica (o di riduzioni della pressione fiscale) è stato utilizzato ampiamente dai governi. Tuttavia, gli episodi di inflazione e di stagflazione che seguirono gli anni 70, le rivendicazioni salariali e gli shocks petroliferi, indussero in molti paesi la convinzione che fosse meglio separare la gestione della politica monetaria da quella fiscale, attribuendo alla prima il controllo dell’inflazione e alla seconda la responsabilità di stabilizzare il ciclo economico e di gestire al meglio il debito pubblico. La letteratura sul dibattito regole verso discrezionalità, che pure evidenziava i benefici in termini di credibilità di regole stringenti sull’inflazione, non taceva sul rischio che una eccessiva volatilità ciclica rendesse questa situazione meno desiderabile. Ma nei lunghi anni della grande moderazione, la volatilità macroeconomica risultò sufficientemente contenuta, con l’effetto di rendere molto contagiosa la passione per le regole. Queste vennero         sancite in modo puntuale nella costruzione dell’Unione economica e monetaria, richieste senza margini di flessibilità dal paese più virtuoso sul fronte della stabilità dei prezzi per accettare di condividere la sovranità monetaria con altri partner, che non avevano dato prova di un uguale rigore: fu il prezzo da pagare per “comprare” i benefici di tassi di interesse più bassi sul debito, un favore non da poco, soprattutto per i paesi, come il nostro, con alto debito.

I vincoli esplicitati nel Trattato sull’Unione europea vietano il finanziamento in base monetaria dei disavanzi sia comunitari che dei singoli Stati membri, inibendo quindi completamente il possibile coordinamento fiscale e monetario, che pure oggi sembrerebbe alquanto auspicabile.

Addirittura, è stato necessario un dibattito snervante per consentire alla Banca Centrale Europea di fare quello che normalmente una banca centrale ha sempre fatto, cioè acquistare (o vendere) sul mercato secondario i titoli del debito pubblico, e che peraltro era già esplicitamente previsto come possibile nello statuto della BCE (sotto la voce “interventi di fine tuning”). Il recente, ma tardivo, programma di quantitative easing ha finalmente sanato una anomalia nella gestione della politica monetaria e consentito alla banca centrale di espandere la base monetaria per provare a raggiungere un target di inflazione rispetto al quale è insolvente da anni. La sua adozione in un contesto di tassi a zero (o negativi su una gran moltitudine di asset) ci ha pero’ spinti in un territorio pericoloso e abbastanza sconosciuto: tanto per dire, le condizioni di equilibrio della maggior parte dei moderni modelli dinamici con moneta “saltano” in presenza di tassi di interesse negativi.

Riuscirà la politica monetaria da sola a riconquistare una agognata e moderata inflazione, e a far ripartire in modo stabile la crescita? La risposta non è ovvia, e anche le esperienze storiche recenti di Giappone e Stati Uniti non offrono certezza alcuna. In entrambi i paesi, la politica monetaria è     stata accompagnata, seppure non con un coordinamento ferreo come quello suggerito dalla versione moderna dell’elicottero, da politiche fiscali espansive. Se negli USA l’economia è ripartita, pur rimanendo esposta a rischi e a maggiore volatilità, in Giappone, gli alti disavanzi continuano ad alimentare un debito enorme senza produrre evidenti benefici in termini di crescita economica (né di raggiungimento di un minimo desiderabile di inflazione). Aggiungiamo che nell’area dell’Euro manca del tutto il contributo delle politiche fiscali e il quadro permane buio.

L’elicottero servirebbe eccome. Peraltro perché è ormai chiaro che o ci muoviamo verso un completamento fiscale (e finalmente politico) dell’eurozona, oppure il futuro vedrà ridursi (e di molto) l’area in cui gli euro continueranno a circolare ed avere corso legale. Una soluzione potrebbe essere quella di utilizzare l’elicottero in combinato disposto con una robusta riduzione permanente delle imposte (data l’elevata pressione fiscale media nell’eurozona). Infatti una riduzione delle tasse finanziata solo dal taglio della spesa pubblica sarebbe recessiva (come riconosciuto anche dal Fondo Monetario internazionale) nel breve periodo, seppure auspicabile nel medio termine. Gli stati dovrebbero vincolarsi ad accompagnare una riduzione permanente delle imposte con un piano di più graduale riduzione della spesa, in modo tale da raggiungere un equilibrio di bilancio nel medio periodo. I disavanzi generati negli anni di aggiustamento andrebbero coperti con trasferimenti monetari permanenti della BCE ai singoli governi, condizionati tuttavia all’esecuzione del concordato programma di riduzione graduale della spesa. Senza cambiare il trattato si potrebbe semplicemente votare, nell’Eurozona, sulla sospensione della clausola di finanziamento in base monetaria per 3-5 anni, condizionandola come sopra suggerito.

I benefici sarebbero molteplici e consentirebbero all’eurozona di riappropriarsi della leva fiscale di politica economica, troppo costretta nell’attuale regime. Parte del trasferimento potrebbe anche essere utilizzato per dotare un Ministro del bilancio europeo di strutture e poteri adeguati a garantire     assenza di fenomeni di free riding e spostare a livello centrale in Europa alcune competenze domestiche sinceramente non giustificabili nel passaggio verso un futuro Stato federale (ad esempio parte delle forze armate e sistemi di sicurezza alle frontiere).

In situazioni eccezionali, occorre osare e prendere qualche rischio, anche perché molti rischi sono anche associati ad una ingiustificabile inerzia della politica e delle istituzioni.