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Oltre il capitale

La prova degli stress test si è conclusa. E il patrimonio delle banche italiane ha superato l’esame della Bce. Salvo due eccezioni. Che non giustificano tuttavia il pessimismo ancora diffuso.

Silvano Carletti
Carletti

I risultati dell’esercizio di valutazione approfondita dei bilanci dei principali gruppi bancari europei condotto dalla Bce (comprehensive assessment) sono stati accolti da commenti di segno spesso diverso. Nel caso delle banche italiane quelli con intonazione negativa sono stati frequenti. In effetti il 30% della carenza patrimoniale evidenziata dagli stress test (9,5 miliardi) è riferita a due banche italiane (Monte Paschi e Carige). A questo rilievo si può contrapporre la constatazione che le altre 13 banche italiane considerate nell’esercizio hanno un’eccedenza patrimoniale pari a 25,5 miliardi. Sotto un profilo puramente contabile, quindi, ne deriva nell’insieme un’eccedenza patrimoniale di 22,6 miliardi. Quattro dei cinque gruppi al vertice del sistema (Intesa 10,9 mld, Unicredit 8,7 mld, Ubi 1,8 mld, Banco Popolare 1,2 mld) hanno spazio patrimoniale per assorbire eventuali acquisizioni, in Italia o all’estero.

In termini di attivo le due banche risultate carenti sotto il profilo patrimoniale pesano sul totale delle banche italiane esaminate per il 10-11% (meno del 9% se si considera l’intero sistema). In entrambi i casi le difficoltà sono in ampia misura l’eredità di mala gestio, sulla quale sta indagando la magistratura. La situazione di queste due banche era ben percepita dal mercato che da inizio anno ha proceduto a svalutarne ampiamente i titoli (di circa il 45% nel caso del Monte Paschi, oltre il 60% per Carige). Quanto avvenuto dopo il 26 ottobre risente ovviamente delle ipotesi sulla possibile risposta alla richiesta della vigilanza europea. Il titolo Monte Paschi che a inizio luglio si posizionava sopra 1,5 euro, il 24 ottobre era intorno a 1 euro; successivamente è sceso anche sotto quota 0,6 euro.

Le valutazioni negative sul risultato complessivo delle banche italiane sembrano spesso muovere da alcuni errori di fondo. Il primo e più ricorrente è che il risultato del comprehensive assessment della Bce non va letto come una sorta di guida per l’investitore. Obiettivo dell’esercizio era valutare la solidità dei maggiori gruppi europei soprattutto in un’ottica di rischio sistemico. Se l’obiettivo fosse stato quello di guidare l’investitore le banche messe all’indice sarebbero state molte di più: dei 123 gruppi esaminati ben 37 sono quelle impegnate in un processo di ristrutturazione richiesto/imposto dalla Commissione Europea a seguito del determinante aiuto pubblico (leggasi: salvataggio) ricevuto dopo il 2008. Il presente e il futuro di queste banche è quanto mai incerto per gli impegni sottoscritti in termini di drastico ridimensionamento del perimetro delle attività; a questo si deve aggiungere che l’aiuto finanziario, oltre a essere in genere particolarmente oneroso, deve essere restituito; infine, l’eventuale coinvolgimento diretto dello stato nel capitale deve terminare appena possibile. Di questi 37 gruppi, uno solo è italiano, 9 sono spagnoli, 7 tedeschi, 3 belgi, 2 inglesi.

Un secondo errore ricorrente è quello di sottovalutare il legame tra condizione delle banche e situazione economica complessiva. Le statistiche ufficiali dicono che a fine giugno 2014 la nostra economia aveva completato il dodicesimo trimestre consecutivo di recessione. Le previsioni delle principali istituzioni ipotizzano che il segno meno caratterizzerà l’andamento economico anche in questa seconda parte dell’anno corrente. In definitiva, negli ultimi sette anni (cioè dal 2008) cinque sono stati di recessione. Sarebbe sorprendente se il sistema bancario non subisse le conseguenze di questa situazione tanto sul versante del conto economico quanto su quello patrimoniale. Come giustamente rilevato anche dalla Banca d’Italia, con questa base di partenza lo scenario adottato nell’esercizio di stress disegna “un collasso dell’economia italiana, con conseguenze ben oltre la sfera bancaria”.

Non è invece sorprendente che malgrado questo scenario di fondo la quasi totalità delle banche italiane abbia superato l’esame Bce: tralasciando altre forme di rafforzamento patrimoniale, tra il luglio 2013 e l’agosto 2014 sono stati perfezionati dalle banche europee aumenti di capitale per circa 60 miliardi; di essi circa 13 miliardi sono attribuibili alle banche italiane.

Nell’ambito della ricognizione condotta dalla Bce ci si è particolarmente concentrati sulle possibili conseguenze di un deterioramento dell’economia reale. Meno attenzione sembra aver avuto l’evoluzione dei rischi di natura finanziaria. Nelle istruzioni rese pubbliche a inizio anno (cfr. Ebc, Note on the comprehensive assessment, febbraio 2014) si precisava che sarebbe stata condotta anche una revisione delle cosiddette attività di livello 3, vale a dire titoli illiquidi, privi di un qualunque mercato e considerati in bilancio a prezzi calcolati con modelli matematici (mark-to-model). Si tratta prevalentemente di titoli strutturati, eredità diretta della bolla finanziaria scoppiata nel 2008-09. Secondo il monitoraggio periodicamente condotto da Mediobanca a fine 2013 i venti principali gruppi bancari europei ne detenevano per circa € 225 miliardi. Per nove di questi gruppi il loro ammontare supera un quinto del patrimonio netto tangibile; Barclays e Deutsche Bank ne detengono rispettivamente per quasi 40 e 30 miliardi (59% e 71% del patrimonio netto). UniCredit e Intesa Sanpaolo ne detengono in misura più contenuta (7,1 e 6,6 miliardi; 15,9% e 17,5% del patrimonio netto).

Nel documento della Bce prima citato si ipotizzava una completa rivisitazione dell’argomento, sia nella parte derivati sia in quella non derivati, oltre che dei modelli di valutazione. Le informazioni su questa parte dell’esercizio Bce sono decisamente scarse (nei loro comunicati la maggior parte delle banche omette totalmente l’argomento). Nel corso di una audizione tenutasi qualche giorno fa, Danièle Nouy, dal 4 novembre a capo della vigilanza europea, ha detto che i rischi di trading sono stati sottoposti al test, mentre altri rischi che non sono stati presi in considerazione lo saranno nella nuova fase di supervisory research (pilot 2). Che cosa possa significare questa affermazione per le attività di livello 3 è difficile dirlo.