Bilancio della crisi
Oggi siamo davvero al sicuro?
Paola Pilati

Può capitare di nuovo? Come in un incubo ricorrente, la domanda seguita a tormentare gli economisti, che dieci anni fa non sono stati in grado di prevedere la crisi, ma che oggi non si possono permettere lo stesso errore. Le crisi non si presentano mai allo stesso modo, dicono tra scaramanzia e ricerca di un alibi. Eppure la domanda non può essere evasa.

E allora partiamo dall’esaminare se i dieci anni di crisi che abbiamo alle spalle abbiano almeno lasciato un ambiente finanziario più sicuro.

Se si guarda al dato del debito, l’elemento che è stato alla base dell’esplosione della crisi, non c’è davvero da stare tranquilli. In questi dieci anni il debito pubblico globale è raddoppiato a 60 trilioni di dollari, ed è aumentato molto soprattutto nelle economie più avanzate, ma l’indebitamento complessivo globale, che include non solo i governi ma anche le grandi società non finanziarie e le famiglie, è cresciuto di 72 trilioni di dollari dal 2007. I dati, basati sulla Bri, sono riportati nel briefing del McKinsey Institute di agosto, che pur ammettendo che la crescita è ormai robusta, lancia un’ombra sinistra sul futuro prossimo (https://www.mckinsey.com/industries/financial-services/our-insights/a-decade-after-the-global-financial-crisis-what-has-and-hasnt-changed).

Oltre al debito dei governi – aumentato nei paesi più sviluppati per far fronte ai conti del welfare, in quelli in via di sviluppo per i conti delle infrastrutture – a preoccupare sono i debiti privati. Per quello che riguarda le aziende, il debito è cresciuto ma soprattutto sotto forma di obbligazioni invece che di prestiti bancari. Il che non tranquillizza affatto, visto che per due terzi la crescita viene dai paesi in via di sviluppo: prima di tutto la Cina, ma anche paesi come la Turchia. Nel momento in cui la valuta nazionale si svaluta, come è accaduto alla lira turca, può diventare molto difficile ripagare i prestiti contratti all’estero.

E le famiglie? Scottate dalla crisi dei mutui subprime, le famiglie hanno passato gli anni della crisi a leccarsi le ferite. Negli Usa hanno ridotto il proprio indebitamento, misurato rispetto al Pil, del 19 per cento, ma è esploso il debito contratto dagli studenti per mantenersi agli studi, che è arrivato a 1,4 trilioni di dollari ed è considerato quasi altrettanto pericoloso; in Spagna le famiglie hanno ridotto il proprio indebitamento del 20, in Germania dell’8 per cento, in Irlanda addirittura del 50. In altri paesi industrializzati invece le famiglie hanno incrementato la quota di debito: in Francia del 12, in Canada del 22, in Norvegia del 28 per cento. Le famiglie insomma restano complessivamente ancora vulnerabili.

Le banche, che hanno inghiottito la parte più grossa delle risorse messe in campo dai governi, si presentano oggi in forma migliore di dieci anni fa. Sono state obbligate ad alzare i requisiti di capitale, a munirsi di maggiore liquidità, ma spesso hanno dovuto ridurre il perimetro della propria attività. E soprattutto hanno dovuto rinunciare a una grossa fetta dei propri guadagni. Il Roe (return on equity) delle banche nelle economie avanzate si è più che dimezzato dall’inizio della crisi, la quale ha messo in ginocchio soprattutto le banche europee, il cui Roe negli ultimi quattro anni è all’incirca la metà di quello delle banche Usa. Le sfide lanciate alla banche dei nuovi player digitali e dalla fintech può anche peggiorare le prospettive dell’industria del credito tradizionale.

In un rosario di pericoli, c’è però anche una buona notizia, o meglio l’aspetto positivo di un fenomeno che è in sé un segno di paura. E cioè che lo scenario finanziario ha visto via via scemare il movimento del denaro attraverso i confini dei paesi e dei mercati: il flusso dei capitali cross-border è crollato del 53 per cento dal suo picco del 2007, man mano che le banche arretravano nei propri ambiti nazionali e tagliavano le proprie esposizioni su quelli internazionali. Quelle europee hanno tagliato i crediti verso l’estero da 24,3 trilioni di dollari del 2007 ai 15,8 del 2017. Ma questa potatura ha reso i mercati meno interconnessi e perciò più sicuri, osservano i commentatori della McKinsey, in quanto meno esposti a un eventuale contagio.

Qualche nuovo rischio è però apparso all’orizzonte. Il fatto che siano lievitate le emissioni di bond nei paesi in via di sviluppo, come si diceva, è una miccia potenziale in caso di difficoltà a rimborsarli: McKinsey stima che oggi un quarto dei bond emessi da aziende nei paesi emergenti non possano essere ripagati, e che un aumento dei tassi di 200 punti base farà salire quel 25 per cento, in bilico, al 40 per cento. La pioggia di emissioni in concorrenza ha poi allagato il mercato anche di bond con un rating basso, spesso solo un gradino sopra il “junk”, il livello spazzatura. Nei prossimi cinque anni, in conclusione, visto il previsto aumento dei tassi, assisteremo a una disastrosa catena di default.

Infine, anche se sono passati di moda molti degli strumenti finanziari che sono stati i propagatori della crisi, come i certificati default-swap, un’altra diavoleria può minare il mercato: è la diffusione nel trading di titoli basato su algoritmi. In questo settore gli investitori hanno scommesso tre trilioni di dollari negli ultimi dieci anni, ed poiché è uno strumento di investimento passivo, non bada più di tanto ai fondamentali delle aziende in cui investe. E può creare bolle, tante bolle pronte ad esplodere all’improvviso.