SCENARI POST-COVID
Nuove sfide per le banche italiane

Quali saranno gli impatti del post-crisi per le banche italiane? Fine del blocco dei licenziamenti e delle moratorie dei debitori potrebbero avere un effetto bomba sui bilanci. Ma oltre ai problemi congiunturali, il sistema del credito dovrà affrontare le sfide di fondo, che richiedono scelte coraggiose

Giorgio Di Giorgio

Con il protrarsi dell’emergenza pandemica, nuove sfide si presentano all’orizzonte per il sistema bancario italiano. Queste sono al momento rese meno evidenti dal clima positivo che ha fatto seguito alla nascita di un nuovo Governo nel paese, affidato alla leadership di Mario Draghi. Ma rimangono rilevanti.

Il paese, come noto, soffre di un ormai atavico ritardo, in termini di performance di crescita, rispetto agli altri paesi membri dell’Eurozona, che peraltro non brilla, in aggregato, tra i paesi industrializzati. Tale ritardo inizia negli anni ’90, diviene più grave a seguito della doppia recessione del 2008-09 e del 2012-2013, da cui esplode la crescita preoccupante dei crediti deteriorati, con impatti negativi sulla redditività e la stabilità di quasi tutte le banche italiane.

Il peso dei non performing loans italiani arriva circa al 50% del totale di quelli dell’Eurozona tra il 2015 e il 2016, richiede interventi importanti del Governo in termini di salvataggio di istituti ed estesa fornitura di garanzie accessorie che consentano il trasferimento di ingenti rischi ad operatori specializzati sul mercato. 

Le banche italiane rimangono, in media, sottodimensionate, e concentrate su segmenti di business tradizionali, negativamente impattati dal calo del margine di interesse connesso alla politica monetaria ultra-accomodante della BCE. Di più, il nesso pernicioso tra sistema bancario e finanza pubblica non viene totalmente reciso dall’incompleta realizzazione della Banking Union nell’Eurozona. Il “rischio Italia” associato alla massiccia detenzione di titoli di Stato nei bilanci bancari viene mitigato dal Quantitative Easing e dagli interventi a sostegno della liquidità e della capacità di erogare finanziamenti adottati a Francoforte, ancora sotto la Presidenza Draghi.

In qualche modo, il mix di politiche funziona e, a partire dal 2018, gradualmente, il sistema bancario italiano, nel frattempo fortemente ricapitalizzato, inizia a ridurre il peso sulla redditività dei crediti deteriorati e a riprendere moderati percorsi di sviluppo, in un contesto caratterizzato anche da timidi movimenti nella direzione di un necessario consolidamento. 

Lo scoppio della pandemia, un anno fa, e il suo protrarsi, si innestano su queste dinamiche specifiche. L’economia italiana, colpita duramente nel primo semestre del 2020, reagisce nel terzo trimestre e limita in qualche misura le perdite, chiudendo l’anno con una contrazione del PIL intorno al 9%, ancora superiore alla media dell’Eurozona, ma per una volta non da “fanalino di coda”.

La sospensione del Patto di Stabilità e il cordone sanitario predisposto dalla BCE con il Pandemic Emergency Purchasing Program e il potenziamento delle operazioni mirate di rifinanziamento (TLTROs) consentono di limitare la risalita pericolosa degli spread e un aggravarsi ulteriore della recessione, mantenendo a galla i conti delle banche italiane. Importante iniezione di fiducia giunge anche dal mutato atteggiamento europeo in tema di bilancio comune, con l’adozione del programma SURE, a sostegno delle casse integrazioni guadagni nazionali prima e, soprattutto, con il Next Generation EU, poi. 

Non c’è dubbio che il paese sia stato potenzialmente esposto ad ulteriori rischi di instabilità con la decisione forte, presa da Matteo Renzi, di aprire una crisi politica in un momento così delicato. Tuttavia, la rapida gestione della stessa e la soluzione trovata di un allargamento della maggioranza di Governo, affidata ad un leader carismatico e rispettato, ha sin qui ripagato ampiamente.

Lo spread con il decennale tedesco si è ridotto sotto l’uno per cento, nonostante una risalita del rendimento sui titoli a lunga in Germania di circa 35 basis points. Oggi, il decennale italiano paga un interesse di gran lunga inferiore a quello statunitense, il che costituisce un vero toccasana per un paese il cui rapporto debito Pil si avvia a superare la soglia del 170%.

Il nuovo Governo Draghi è un blend di tecnocrati esperti e di politici di diversa qualità, esperienza e visione politica, data l’anomala maggioranza emergenziale che lo sostiene. Il suo collante, e principale motivo della crisi voluta da Renzi, è la necessità di una riformulazione coerente e, soprattutto, di una corretta implementazione del programma di riforme strutturali e profondi cambiamenti richiesti per ottenere le ingenti somme messe, potenzialmente, a disposizione dal Next Generation EU.

I fondi, infatti, arriveranno solo condizionatamente ad una valutazione positiva del piano prima, e degli steps intermedi intrapresi, successivamente, da parte della Commissione Europea.  Investire in un miglioramento radicale dell’efficienza della amministrazione pubblica, inclusa la giustizia e una riforma complessiva del sistema di tassazione, è considerato necessario per ridar fiato ad una produttività asfittica nel paese.

Fino a poche settimane fa, il precedente Governo guidato da Giuseppe Conte aveva utilizzato i fondi disponibili principalmente per fornire ristoro e supporto a famiglie ed imprese trovatisi improvvisamente a fronteggiare senza colpe una crisi di impatto devastante. Interventi necessari, a cui tuttavia non si era accompagnata una convincente predisposizione dei successivi interventi strutturali di riforma del sistema economico del paese. I dubbi relativi al rischio di perdere quella che è probabilmente l’ultima occasione per il nostro paese di riagganciare un percorso di sviluppo hanno stimolato la ricerca di una compagine amministrativa, a livello di Governo, in grado di fornire maggiori garanzie di competenza in Europa, e non solo.

Quali saranno gli impatti del nuovo patto politico, e soprattutto del post-crisi per le banche italiane? Il dubbio più evidente è ovviamente associato alle conseguenze in termini occupazionali e settoriali della crisi. Prima o poi, il blocco dei licenziamenti verrà rimosso e le aziende dovranno utilizzare anche tale leva per ottimizzare la riorganizzazione dei processi produttivi. Sarà necessario riqualificare e ricollocare centinaia di migliaia di lavoratori e sostenerne un reddito da cui dipendono intere famiglie.

Lo stesso vale per le estese moratorie concesse ai debitori del sistema bancario. Occorrerà gradualità e attenzione per evitare una nuova impennata nei crediti deteriorati e limitarne un nuovo effetto bomba sui bilanci. Molto dipenderà dall’efficacia dei prossimi interventi di policy e dal clima di fiducia che saranno in grado di innescare negli animal spirits degli imprenditori e nei piani di consumo delle famiglie. Questi dipenderanno anche e soprattutto dalla possibilità di ritornare presto ad una vita normale, attraverso il successo, finalmente, di un piano universale di vaccinazione.  

Ma non è solo la situazione congiunturale e il perdurare, o addirittura il peggioramento, dei suoi effetti che dovrebbe preoccupare azionisti e managers delle banche italiane. Il mondo cambia velocemente e la pandemia è stato un volano per accelerare l’adozione di tecnologie digitali pervasive in ogni settore. Il sistema finanziario era sottoposto già prima alla sfida del fintech, oggi questa diviene ancora più aggressiva. Ripensare e innovare i luoghi e i modi in cui avviene la produzione, la gestione e la commercializzazione dei servizi bancari e finanziari è imprescindibile.  Sfruttare ogni sinergia ed economia di scala e di scopo necessario in un contesto di tassi di interesse ancora probabilmente a lungo bassi, almeno nel segmento a breve. 

Fortunatamente, la struttura di capitale delle banche italiane è oggi molto più solida rispetto a 15 anni fa. Il rapporto di capitalizzazione primario (TIER 1 ratio) delle banche italiane era inferiore al 7% nel 2007, ma superiore al 15% alla fine del 2019, immediatamente prima del diffondersi del Covid. Anche le attività rischiose presenti nei bilanci bancari presentano numeri più rassicuranti. Erano pari al 65% del totale degli assets nel 2007, si sono ridotte al 45% a fine 2019 grazie a notevoli miglioramenti nell’attività di risk management ma anche per la minore erogazione creditizia dovuta sia a una minore domanda in un contesto di economia stagnante, che all’adozione di standard più elevati dal lato dell’offerta. Nel 2020, addirittura, il credito alle imprese è aumentato grazie alle nuove e generose garanzie estese. 

Ribilanciare un modello bancario ancora troppo radicato nell’attività creditizia rimane tuttavia una priorità. Questo richiede strategie di business coraggiose, focalizzate sull’espansione dei servizi di consulenza nella gestione del risparmio e nell’attività al servizio delle imprese (servizi di corporate finance). E un probabile ulteriore sforzo nel consolidamento di una industria che deve trovare un nuovo equilibrio tra large players internazionali, solide banche di media dimensione, un numero adeguato di operatori altamente specializzati su nicchie specifiche di mercato e piccole banche locali rese tuttavia più solide dall’appartenenza ad un gruppo cooperativo con strutture centrali e sistemi di governance adeguati.

L’acquisizione di UBI da parte di Intesa è stato un primo importante tassello del nuovo mosaico che si andrà a costruire. Ha rafforzato il presidio nazionale del nostro primo gruppo bancario, che rimane tuttavia ancora molto “domestico”, nel confronto con altre realtà europee. Sarà interessante valutare come reagiranno gli altri attori seduti al tavolo da gioco.