new
COMMERCIO INTERNAZIONALE
Non sparate sulla globalizzazione

intervista con Beniamino Quintieri, professore ordinario di Economia e Finanza Internazionale presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata

Una golden age che ha ridotto la povertà e l'inflazione, ecco il bilancio della globalizzazione sull'economia mondiale. Rispondere ai dazi di Trump non vuol dire rinunciare a quei benefici, ma cercare nuovi alleati commerciali che non siano solo la Cina. E colpire con contro-dazi mirati

Paola Pilati

Le mosse di Trump sono una risposta agli effetti prodotti dalla  globalizzazione sull’economia degli Usa. Ma è vero che la globalizzazione ha prodotto solo disastri: impoverimento della base industriale domestica, perdita di posti di lavoro, squilibri commerciali? E poi: quanto è possibile con i dazi riavvolgere il nastro di un fenomeno di portata globale?

Nell’intervista che segue ne discutiamo con Beniamino Quintieri, professore ordinario di Economia e Finanza Internazionale presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, una carriera di economista e anche di manager che lo ha visto – tra gli altri incarichi – nelle vesti di presidente dell’Ice e della Sace.

«Penso che, invece di pensare di azzerare la globalizzazione, la vera proposta da fare sarebbe come rilanciarla – dice Quintieri-. Perché non possiamo dimenticare che, grazie alla globalizzazione, il mondo ha vissuto fino al 2010 mezzo secolo di prosperità, con un numero di paesi coinvolti come mai prima nella storia dell’umanità. Man mano che crescevano le adesioni alla WTO, cresceva parallelamente, soprattutto in molti paesi asiatici, il cambio di politica: si abbandonavano atteggiamenti di chiusura, come nel caso della Corea del Sud, e si ponevano le basi per l’uscita dalla povertà di centinaia di milioni di persone. L’economia mondiale è cresciuta grazie alla globalizzazione e questo è stata la medicina più efficace per combattere la povertà».

Perché allora hanno preso piede i movimenti antiglobal?

«A parte per la cattiva informazione, si è creata senz’altro anche una forte questione distributiva: le disuguaglianze sono aumentate. Ma più che biasimare il commercio internazionale e la globalizzazione in sé, questo è stato l’effetto dell’uso delle tecnologie che essa ha adottato, che da un lato hanno permesso la diffusione delle catene del valore, ma hanno anche accentuato la concentrazione della ricchezza nelle mani dei possessori dei capitali. Il vero limite dalla globalizzazione è stato l’incapacità di molti governi di governare questo processo. La globalizzazione avrebbe richiesto una revisione delle politiche di welfare, proprio per sfruttare il tesoretto della globalizzazione con politiche redistributive. Non è un caso che i movimenti antiglobal non ci sono stati o sono stati trascurabili nei paesi nordeuropei, dove il sistema di welfare si è adeguato a sostenere i lavoratori che perdevano il posto di lavoro».

All’Italia la globalizzazione ha fatto bene o male?

«L’Italia è stato uno dei maggiori beneficiati dalla globalizzazione. Abbiamo un surplus commerciale tra i più alti al mondo, il primo nella Unione europea, ed essendo un paese che cresce poco, se non ci fosse stata l’apertura al commercio internazionale oggi l’Italia se la passerebbe molto peggio. Quindi andiamoci piano ad accusare la globalizzazione: gli storici ricorderanno questo periodo come una golden age per l’economia mondiale».

Ora il contesto è totalmente cambiato. I dazi di Trump paralizzano il commercio mondiale. Come si può reagire?

«Cercando di creare nuove aree di libero scambio tra l’Europa e il resto del mondo. Una strategia “trade for all” che l’Europa ha già intrapreso: in un periodo in cui la WTO ha perso peso, come si è visto in queste settimane, l’Europa ha sopperito all’assenza di accordi globali con preferential agreement, accordi preferenziali. Ha siglato intese con il Canada, con la Corea, il Mercosur, il Giappone, sta trattando con l’India… Naturalmente non puoi sostituire tremila miliardi di dollari di importazioni americane in un attimo, considerando che gli altri faranno la stessa cosa: come noi cercheremo di penetrare di più nei mercati asiatici, gli asiatici cercheranno di penetrare di più nella Ue. Ma è una politica che va perseguita, e non solo come risposta agli Usa, ma anche per evitare che i mercati asiatici si chiudano in una enclave commerciale sotto l’egida della Cina».

È realistico l’obiettivo di Trump di riportare le produzioni negli Usa?

«È un’operazione costosa. Che oltretutto dimentica i principi basilari dell’economia, che sembravano ormai inglobati nel pensiero politico. L’idea cioè che la specializzazione – il famoso vantaggio comparato – fosse un modo per allocare la produzione a livello mondiale sulla base dei vantaggi, è un fondamento della prosperità a livello mondiale. Trascurare l’idea che ciascuno si specializza in quello che sa fare meglio, è un danno per tutti. Le catene del valore si sono sviluppate sul fatto che ciascuno andava a delocalizzare nei posti in cui era conveniente farlo. E questo non conveniva solo alla Cina, che moltiplicava le sue fabbriche, ma anche alle multinazionali americane. E conveniva all’Italia, visto che siamo un’economia fortemente specializzata. Riportare tutto a casa vuol dire ridurre l’efficienza globale e aumentare i costi. Tutto a danno dei consumatori».

Avendo tante produzioni destinate a consumi di alta fascia – l’alimentare, la moda – per l’Italia trovare mercati alternativi agli Usa può essere più difficile?

«Innanzitutto non bisogna dimenticare che la metà del commercio italiano è la meccanica, che è legata all’industria dell’auto, che è in difficoltà, ed è complessivamente un settore fortemente condizionato dal clima di incertezza: se gli investimenti mondiali rallentano, o si bloccano, questo farà diminuire la domanda di prodotti meccanici. Quanto ai beni di lusso, proprio perché ci rivolgiamo a consumatori ad alto reddito, l’impatto dei prezzi forse peserà meno, perché potrà essere ammortizzato dalle stesse imprese. Una cosa è se un paio di scarpe a basso prezzo prodotte in Sri Lanka si ritrova un 20-30% di dazio in più: questo le renderà meno competitive. Altra cosa è lo stesso dazio su un paio di scarpe di Ferragamo. E poi bisognerà vedere quale sarà l’elasticità della domanda dei consumatori dei beni di lusso».

Si dice: l’Europa deve aprire alla Cina. Sdoganare la Cina come partner europeo ci conviene?

«Se esporti di più devi accettare il rischio di dover importare di più. E non dimentichiamo che fino a poco tempo fa la Cina era accusata dalla comunità internazionale di fare dumping, come testimoniano le tante pratiche antidumping presso la Comunità europea. D’altro canto, la Cina potrebbe avere un ruolo decisivo sul commercio internazionale se sostenesse una politica di sostegno alla sua domanda interna, cosa che non vuole fare, per ora. Staremo a vedere se, di fronte a contrazione degli scambi, cambierà strategia. Per quanto ci riguarda, pensare solo alla Cina non è privo di rischi, la strategia deve essere su più fronti».

Aver ammesso la Cina nella WTO è stato un errore?

«No: l’apertura della Cina ha portato a una crescita straordinaria del commercio internazionale. E non dimentichiamo che se per vent’anni noi e soprattutto gli Usa – con i grandi store americani invasi da prodotti a basso costo – abbiamo avuto un’inflazione vicina a zero è anche merito della globalizzazione. La differenza è che allora alla Cina non si poteva chiedere di praticare standard simili a quelli dei paesi industrializzati, come non si poteva chiedere all’Italia negli anni ’50. Adesso sì, non si possono fare sconti alla Cina: devono avere maggiore controllo dei sistemi di produzione e della politica dei sostegni pubblici, come fanno gli altri paesi avanzati».

In tutta questa vicenda la WTO fa la parte del convitato di pietra: non ha aperto bocca, non ha assunto alcuna posizione. Normale?

«Non c’è da meravigliarsi troppo. La  WTO ha perso peso. In assenza della WTO, l’Europa deve aggregare quanti più paesi possibile per una strategia comune per dare una risposta ai dazi degli Usa».

La strategia è dazio contro dazio?

«Sappiamo tutti che mettere dazi peggiora la situazione. Ma è l’unica possibilità che abbiamo di sederci intorno a un tavolo per trattare: come insegna la teoria dei giochi, se un giocatore non reagisce, quell’altro sa che la sua strategia è vincente e non arretra. Se uno si siede con una pistola in mano, tu devi fare la stessa cosa. Il problema è non reagire in maniera indiscriminata, ma adottare una strategia per produrre il massimo impatto negli Usa e il minimo in Europa. Selezionare i dazi considerando quali prodotti europei possono sostituire quelli americani e colpire le imprese situate negli Stati più vicini al presidente. Quindi non una ritorsione a tutto campo, con cui ci faremmo ancora più male, ma una strategia che porti ad una trattativa che abbia qualche probabilità di successo».

Che cosa pensa della tesi che l’obiettivo di Trump sia ottenere dai partner l’impegno ad acquistare e mantenere titoli di stato americani, magari a tassi bassi, stabilizzando il suo debito?

«Il debito americano noi lo finanziamo già: avere un surplus commerciale vuol dire che prestiamo soldi agli Usa, come fa anche la Cina. Quanto a pensare di poter avere tassi più bassi, tutto sta vedere come si metterà il capo della Fed Powell: presumibilmente i dazi genereranno inflazione negli Usa. E se riduci i tassi, questo potrebbe portare ancora più inflazione. Se poi anche l’Europa, come qualcuno ha detto, si mettesse a fare una politica espansiva per svalutare l’euro e controbilanciare l’impatto dei tassi, ci ritroveremmo anche qui a una ripresa dell’inflazione. Quanto a imporre la sottoscrizione di titoli pubblici, sono i mercati che decidono: pensare che uno Stato acquisti a tassi bassi, con un’inflazione elevata e con il rischio di una svalutazione del dollaro, il che farebbe perdere ancora di più valore all’investimento, mi sembra difficile».

Condividi questo articolo