Quello che rende credibile ed accettabile la democrazia rappresentativa è la corrispondenza tra ciò che promette chi vuole essere eletto e ciò che fa quando è stato eletto e va al governo. Ma proprio questo è stato sempre un punto di discussione e di critica, ed è diventato ancora più problematico in questi ultimi anni nelle democrazie contemporanee, in generale, e in alcune democrazie più che in altre. Perché?
Un aspetto essenziale delle democrazie è la competizione elettorale. Il che comporta che per attrarre più voti si tende a promettere di più, sbilanciandosi al punto di prendere impegni che non si possono mantenere una volta al governo. Peraltro, con il contributo dei media che correttamente evidenziano quel sovra-promettere, ne scaturisce un distacco ancora maggiore dei cittadini. Ma il fenomeno si è accentuato in Italia e in questa campagna elettorale per tre ragioni. Stiamo uscendo con una crescita ridotta da una crisi economica assai prolungata. Le risorse a disposizione sono poche. Poi, abbiamo uno dei più alti debiti pubblici tra i paesi industrializzati e, malgrado i bassi interessi, lo spazio di manovra per nuove spese praticamente non esisterebbe. Dimenticare che questo debito esiste alla fine non aiuta. In terzo luogo, i vincoli posti dallo stare nell’Unione Europea riducono ancora le possibilità di realizzare quello che si sovra-promette. Però la spinta a questo comportamento, apparentemente irrazionale, dei leader-candidati rimane forte. Perché? Evidenzierei due ragioni di fondo.
La prima. Se i politici-candidati riconoscessero apertamente e prendessero atto dell’esistenza di queste condizioni-costrizioni dovrebbero anche riconoscere che il loro ruolo e il fatto stesso di eleggerli avrebbe poco senso. Si tratterebbe, cioè, di dichiarare tutti i limiti della politica in questo momento e in questo contesto. Ma se così fosse si accentuerebbe ancora di più in senso negativo un fenomeno ben chiaro a tutti, quello dell’astensione. In breve, il sovra-promettere non è più solo l’effetto non voluto della competizione elettorale, ma il risultato della necessità di evidenziare la rilevanza politica, l’importanza dei potenziali governanti in un contesto che suggerisce che al massimo vi può essere solo spazio per una buona amministrazione dell’esistente, pur di fronte a fenomeni che richiederebbero decisioni politiche e capacità di leadership, quali le gravi conseguenze della globalizzazione e nel nostro caso dell’immigrazione di esseri umani che non si sa come accogliere.
La seconda. Una situazione oggettivamente così difficile potrebbe essere affrontata solo da leader politici che abbiano quattro qualità. Pur non essendo esperti di comunicazione, abbiano la sensibilità e le conoscenze generali per appoggiarsi ai professionisti del settore, che sono invece consapevoli di tutte le diverse possibilità di manipolazione dell’opinione pubblica che le tecnologie a disposizione forniscono. In questo, ad esempio, Berlusconi negli anni passati ha mostrato di avere questa qualità. Inoltre, pur non essendo esperti di nessuna politica specifica, abbiano la sensibilità e, di nuovo, le conoscenze generali e l’esperienza sia per proporre le politiche in grado di attirare meglio gli elettori sia successivamente per realizzare, almeno in parte, quanto promesso. Anche con risultati inattesi. Grazie anche alla sua straordinaria posizione di potere, ad esempio, Trump sta evidenziando questa qualità. Questo comporta – terzo – avere la capacità di scegliere gli esperti capaci sia sul piano della comunicazione che delle politiche, che saranno decisivi proprio nelle lunghe fasi post-elettorali. E, quarto, riuscire con le proprie naturali di comunicatività e presenza, a convincere le persone a seguire un programma, per quanto limitato e non così straordinario. In questo senso avere la capacità di unificare creando consenso. E di nuovo in passato Berlusconi ha mostrato questa capacità, che invece fa difetto a Matteo Renzi.