CREDITO / CHE COSA NON FUNZIONA
Non soffocate di regole le banche di territorio

Intervista con Sergio Gatti, direttore generale Federcasse

Gli stimoli della Bce vanno in una direzione, le norme di supervisione dell'Eba in un'altra. E queste ultime hanno sopravvalutato il rischio di credito rispetto al rischio di mercato. È l'analisi del direttore generale di Federcasse, che rappresenta 260 banche di comunità. E propone l'abbandono dell'approccio "una sola regola buona per tutti". Dal calendar provisioning in vigore, alla nuova definizione di default in arrivo, a Basilea 3Plus, tutto andrà rivisto. Non per abbassare la guardia. Ma per calibrare le misure a seconda dei destinatari

Perché una politica monetaria fortemente espansiva come quella sostenuta da tempo dalla Bce non si traduce in una spinta altrettanto forte del credito nel tessuto produttivo? Che cosa si è messo di traverso in un meccanismo che avrebbe dovuto funzionare a perfezione, secondo regole ben conosciute? A essere sul banco degli imputati, di fatto, sono finite le banche. Sospettate da più parti di non fare fino in fondo la propria parte. Ma le banche non ci stanno a farsi crocifiggere. E stanno passando al contrattacco. La loro arma? Un cahier de doleances che ha come destinatari i legislatori e i regolatori europei. E che vede tra i protagonisti più accesi quelle banche di credito cooperativo e casse rurali e artigiane – circa 260, riunite in Federcasse – che sono l’ossatura creditizia del mondo dei piccoli imprenditori in tanti territori, nel turismo nell’agricoltura e nell’artigianato, a cui dispensano oltre un quarto del credito totale. 

«Nel 2019 il credito in Italia è diminuito. Il “cavallo non beve”, è vero. Ma il fenomeno ha anche due cause ben precise», dice Sergio Gatti, direttore generale di Federcasse. Quali? «Primo, il fatto che il modello di business delle banche è spinto fortemente verso il restringimento del credito, vista la minore convenienza a fare prestiti a tassi bassi; secondo, perché se non sai fare “relationship banking”, cioè se non operi con la conoscenza diretta del tuo cliente, fare credito alle imprese più piccole può essere rischioso. Quindi cosa è tentata di fare una parte delle banche? Preferisce tenere a tassi negativi la liquidità presso la Bce, piuttosto che rischiarlo in una piccola impresa».

Questo vuol dire che la politica monetaria ha fallito il suo intento, che è un’arma spuntata?

«Non accuso la politica monetaria. Anzi. La fase espansiva è stata indispensabile e lo sarà ancora di più, con strumenti diversi dal recente passato, in questa inimmaginabile crisi del Covid-19. Ma i suoi effetti sono stati depotenziati. Innanzitutto perché le politiche di bilancio sono state lasciate ai singoli paesi dell’area euro, i quali non hanno colto fino in fondo questa opportunità di sovrabbondanza di liquidità. Poi per uno strabismo a livello europeo, dove Bce ed Eba hanno remato spesso in direzioni diverse. Di fatto in Europa tra i co-legislatori, cioè coloro che scrivono le norme primarie, le direttive e i regolamenti (la Commissione, il Parlamento e il Consiglio) e chi scrive le linee guida, le policy e i modelli di vigilanza (Bce ed EBA) c’è una contraddizione.  Gli stimoli vanno in una direzione, le norme e le policy di supervisione spesso in un’altra. E queste ultime hanno sopravvalutato il rischio di credito rispetto al rischio di mercato».

Che cosa intende?

«Basta vedere quanto sono cresciuti nelle banche gli attivi di livello 2 e 3, tipo i derivati, che stanno a indicare una crescita del rischio finanziario, ma su cui le norme primarie e gli approcci di supervisione sono meno severi di quelle usate per chi fa credito per creare lavoro e reddito».

Cioè le piccole banche di territorio come quelle che lei rappresenta… Ma se l’effetto distorsivo della regolamentazione vi colpisce in modo particolare, cosa chiedete? 

«Proponiamo l’abbandono dell’approccio “one size fits all”, una sola regola buona per tutti. Prendiamo le regole di Basilea. Gli Usa, la Svizzera, il Giappone, tanto per citare alcune delle giurisdizioni a noi paragonabili, hanno recepito quegli accordi in modo differenziato. Gli Usa, per esempio, li hanno classificati in quattro categorie a seconda delle dimensioni, della complessità e rischiosità dei soggetti: le community bank, paragonabili alle banche di territorio e alle banche mutualistiche italiane, negli Stati Uniti sono poco toccate da Basilea 2 e 3. Al contrario, quelle europee ne sono completamente coinvolte. Il legislatore europeo, infatti, ha preso tutte le clausole e le ha spalmate indistintamente senza tener conto né della dimensione, né della finalità imprenditoriale. Che per le nostre banche mutualistiche, non è quella di remunerare l’azionista, ma quella di erogare credito e tutelare il risparmio con un vantaggio per i soci e le comunità. Stesso monolite per le regole e di conseguenza per la vigilanza UE. Invece negli Usa hanno calibrato le regole a seconda delle dimensioni e del modello di business dei destinatari vigilati e coerentemente le policy di supervisione, come ha ben dimostrato Rainer Masera in “Come colmare lo iato tra le due sponde dell’Atlantico” (Ecra, 2019, prefazione di Ignazio Visco). Il legislatore europeo sembra dimenticare che il 75 per cento dell’occupazione del continente non è fatta dai colossi imprenditoriali ma dalle medie, piccole e microimprese». 

Quindi vorreste qualcosa di simile anche da questa parte dell’Oceano?

«Quando si trattò di recepire Basilea 3 chiedemmo al legislatore italiano di introdurre non un single rule book, ma un double rule book, ma non abbiamo avuto successo. Senonché, a partire dal 2016, lo stesso approccio è stato fatto proprio e proposto dalle istituzioni tedesche cambiando la denominazione in “small banking box”, per chiedere di dedicare alle piccole banche una parte della legislazione europea adeguata alle dimensioni e alla complessità delle banche più piccole. Qualche risultato è così finalmente arrivato con il “Pacchetto bancario UE” approvato nel 2019, con il CRR2 in particolare, che è stata una battaglia in cui abbiamo ben collaborato con l’Abi e i colleghi tedeschi. Con questa direttiva si introduce la soglia dei 5 miliardi di attivo, al di sotto della quale le banche sono classificate come piccole o meno complesse, quindi destinatarie di alcuni alleggerimenti normativi». 

Piccoli passi avanti si stanno facendo. Che cosa vi preoccupa ancora?

«I danni che potrebbe portare con sé Basilea 3Plus soprattutto alla luce del nuovo drammatico scenario generato dal Covid-19. E se non si vorrà cogliere neanche questa faglia nella storia europea (se non mondiale) per rivedere un approccio regolamentare inadeguato e in linea generale pro-ciclico. Con quell’impostazione – one size fits all –  regole diventerà sempre più difficile fare credito. Perché? Perché l’obiettivo è avere poche grandissime banche in Europa per poter competere con i colossi cinesi, giapponesi, americani. Dimenticandosi che quei colossi saranno costretti a una competizione con il coltello tra i denti, e quindi punteranno più alla remunerazione dei propri azionisti globali che all’effetto economico sui territori. Non è fantafinanza, è una tendenza reale. Freniamo prima che sia tardi. Colpisce la quasi indifferenza di una parte delle autorità anche politiche». 

Nel mondo bancario su questi temi c’è solidarietà o le grandi banche marciano da sole?

«C’è una preoccupazione diffusa per le nuove regole. Dal calendar provisioning che è in vigore, alla nuova definizione di default che è in arrivo ed è pazzesca, a Basilea 3Plus, alle regole sulla finanza sostenibile, tutto andrà rivisto. Non nel senso dell’abbassare la guardia ma nel senso di calibrare le misure a seconda dei destinatari e del loro appetito al rischio. Tanto che le grandi banche tedesche hanno già chiesto alla Merkel, quando assumerà la presidenza dell’Unione nel secondo semestre di quest’anno, di attenuare l’impatto di Basilea 3Plus sulle grandissime banche. E anche l’assemblea nazionale francese ha approvato a larghissima maggioranza un documento che mette in guardia le autorità europee dal recepire in maniera piatta Basilea3Plus. Gli oneri di compliance per le piccole banche sono uno svantaggio competitivo non passeggero ma permanente. Con l’Abi si lavora molto bene in questo senso: un’articolata risposta alla consultazione lanciata dalla Commissione UE è stata trasmessa a inizio anno, e tutti hanno condiviso l’allarme e le richieste».

Perché la nuova definizione di default vi spaventa tanto?

«La nuova definizione nasce per le banche con oltre 30 miliardi di attivo, ma si applica anche per le banche less significant con pochissime differenze. Immagini un imprenditore che ha preso un credito di due milioni per costruire un capannone, ha pagato costantemente, e ora è costretto a saltare una rata per mancanza di liquidità: bastano 500 euro (solo 100 per le esposizioni al dettaglio)  perché quel credito venga messo a sofferenza. Quindi lui, pur essendo un ottimo cliente, non è più bancabile: se non rientra non troverà più credito, ma forse prima potrebbe fallire. Non si mettono limitazioni agli investimenti finanziamenti speculativi, ma si mettono al credito all’economia reale. Ma chi pensa queste regole, ne capisce e si prende cura davvero gli effetti sulla stabilità complessiva? Sulla coesione sociale? Sulla possibile disaffezione verso il Progetto europeo?».

Come si sono comportate finora le vostre banche di fronte a un ritardo di pagamento simile?

«Se è un cliente che ha sempre pagato, c’è elasticità. Conoscendo la persona, l’impresa, ci si viene incontro. Mestiere che un algoritmo fa meno bene di una banca di comunità».

È l’arte del banchiere che è sparita?

«L’arte del banchiere rischia di non esistere più. Gestire i soldi degli altri, proteggerli, dargli un rendimento, essere capace di prestarli a chi ha un buon progetto e che li può restituire con un margine con cui puoi pagare i tuoi dipendenti. Ecco, questa libertà e capacità di valutare il merito di credito leggendo sia i numeri sia le storie delle persone e delle imprese è sempre più rara da trovare nel mondo del credito». 

Mi pare che non abbia simpatia per gli algoritmi: qual è la posizione del vostro mondo su fintech?

«La componente digitale per le banche di comunità è un’innovazione indispensabile. Ma deve essere unita alla relazione fisica, che da un lato ha un costo, dall’altro un vantaggio in termini di minore rischiosità. Non è un caso che una grande banca come JP Morgan abbia deciso l’estate scorsa di aprire 400 filiali nell’America profonda. Ha capito che c’è uno spazio di business non coperto dalle community bank. Chi se lo sarebbe mai aspettato? È il segnale che bisogna unire le due cose. La vera minaccia, d’altra parte, non è il fintech ma sono le bigtech».

Anche voi temete il “gafa”: Google, Amazon, Facebook, Apple?

«Capitali immensi di denaro e di dati sensibili, impegno sul sistema dei pagamenti, ma nessuna regola assimilabile a quelle imposte alle banche: i requisiti di governance, le norme sulla trasparenza, per contrastare il riciclaggio non sanno cosa sono, e non c’è alcun fondo di garanzia obbligatorio a tutela dei clienti. Insomma un campo di gioco del tutto non livellato. E il legislatore europeo tende a restringere la funzione di erogazione del credito all’economia reale delle proprie banche e affronta solo ora la concorrenza di questi nuovi soggetti. Amazon un giorno non lontano ti offrirà un prestiti di 100 mila euro valutando la tua richiesta con un robot. Ma se salti una rata cosa succederà? Ti prenderà la casa?».