Gli NFT sono da considerare una forma di "valuta virtuale", e perciò soggetta alle norme antiriciclaggio? Ecco gli argomenti che fanno pensare di no
La crescita esponenziale che interessa il fenomeno delle cripto-attività porta con sé non poche preoccupazioni legate al rischio di un utilizzo illecito di questi strumenti, in particolare come mezzi per il riciclaggio o per il finanziamento di organizzazioni criminali.
L’Italia è stata tra i primi paesi a mostrarsi sensibile al tema: il nostro legislatore, al fine di contrastarne l’utilizzo anomalo, ha introdotto la nozione di “valuta virtuale” prima ancora che venisse definita dal legislatore europeo e, nel dare attuazione alle successive indicazioni di quest’ultimo, ha esteso e ampliato la definizione già in vigore, andando oltre i limiti segnati in ambito comunitario.
Nella definizione italiana di “valuta virtuale”, infatti, sono ricomprese non solo le cripto-attività utilizzate “come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi”, ma anche quelle la cui finalità sottostante l’emissione e la circolazione è l’investimento.
Ampliamento che ci fa interrogare sulla possibilità che qualsiasi tipologia di cripto-attività – e, in particolare, anche i cd. NFT (Non-Fungible Token) – possa essere inclusa o meno in questa definizione ed essere, quindi, soggetta (o meno) alla disciplina antiriciclaggio.
Per NFT si intende quel token crittografico che rappresenta un asset unico, con funzionalità e caratteristiche proprie che lo rendono non intercambiabile con altro token.
Per potersi configurare la fattispecie oggettiva dell’NFT, è necessario che sussistano tre requisiti: (i) un contenuto digitale sotto forma di token; (ii) una piattaforma che identifica il token in modo univoco e registra i suoi trasferimenti; (iii) un utente che attribuisce un valore economico al prodotto digitale e stipula un contratto con l’ideatore/creatore del prodotto o, come di frequente, con la piattaforma che lo commercializza.
Alla base del processo di realizzazione di un NFT, vi è un prodotto digitale che nasce tale (prodotto digitale nativo) o che è reso digitale tramite un processo di tokenizzazione (come accade per opere d’arte, video, immagini, canzoni, tweet, gif, etc.) rappresentato da un file, il quale viene compresso in una sequenza, tecnicamente chiamata “hash”. L’hash viene memorizzato su una blockchain, con una marca temporale associata. All’utente che acquista il prodotto digitale viene attribuito un certificato digitale che consente di connettersi in modo univoco a uno smart contract realizzato di norma su una piattaforma blockchain che, per mezzo della natura univoca dell’hash, consente di accedere a un file non presente sulla piattaforma che contiene il prodotto digitale.
Quindi, l’NFT non è né il contenuto digitale acquistato, né tanto meno un titolo rappresentativo di una serie di diritti afferenti all’opera, rappresentando, piuttosto, uno strumento per accedere in modo univoco a un contenuto digitale non fungibile. In altri termini, è una sorta di “chiave digitale” che permette di accedere e fruire del contenuto digitale.
Per capire se un NFT sia riconducibile o meno alla categoria delle “valute virtuali” occorre chiedersi se gli NFT vengano utilizzati “come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi” oppure “per finalità di investimento”.
In primo luogo, va rilevato come la caratteristica di “infungibilità” degli NFT non li rende facilmente utilizzabili come “mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi”. Un NFT è utilizzabile come “mezzo di scambio” tanto quanto lo sarebbe un quadro di Picasso o una figurina di un famoso calciatore di un vecchio album della Panini.
Inoltre, per gli NFT si dovrebbe considerare insussistente anche qualsiasi finalità di investimento “generale”. La finalità di investimento, infatti, non rappresenta l’impiego normale di un NFT comunemente inteso, che, piuttosto, viene acquistato per soddisfare l’esigenza di chi acquista di poter affermare di esserne l’unico proprietario (volendo applicare il tradizionale istituto del diritto di proprietà al nuovo mondo del metaverso), potendo detenere, fruire e vendere il prodotto digitale connesso all’NFT.
Per capire se l’operazione di acquisto di un NFT abbia natura finanziaria, l’attenzione, piuttosto, andrebbe posta sulle particolari modalità con le quali gli NFT vengono offerti, considerato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità – condiviso anche dalla Consob – secondo cui gli elementi indicativi della natura finanziaria di una operazione non sono gli specifici prodotti venduti, ma le promesse di rendimento.
Pertanto, nella misura in cui un NFT venga emesso e commercializzato con un’aspettativa di profitto o di remunerazione, verrebbe a configurarsi quella “finalità di investimento” che porterebbe a ricomprendere quell’NFT nella definizione di “valuta virtuale”, con conseguente applicazione della disciplina antiriciclaggio.
Concludendo, le caratteristiche degli NFT portano a escludere la “meccanica” riconducibilità di questi asset nella definizione di “valuta virtuale”. Solo un’analisi caso per caso che abbia a oggetto le particolari modalità di offerta degli NFT potrebbe portare a diverse valutazioni, implicando per gli operatori il rispetto degli obblighi antiriciclaggio.