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Non è ancora tempo di dinosauri

Ogni tanto si sente ripetere che saranno le non-banche a prevalere nell’intermediazione creditizia. Ma i dati dicono altro. E il futuro del banking without banks sembra sempre più lontano.

Silvano Carletti
Carletti

Da tempo il rapporto credito bancario/pil registra nelle economie sviluppate un quasi permanente processo di crescita. Aggregando i dati dei 17 principali paesi avanzati si può rilevare che (escludendo gli anni della grande depressione e quelli della seconda guerra mondiale) il rapporto ha oscillato nell’intervallo 50-60%. A partire dagli anni ’60 è cresciuto in misura più continua e intensa, passando dal 62% del 1980, al 79% del 1995, al 112% del 2007, al 118% del 2010. Nei quindici anni che vanno da metà degli anni ’90 alla crisi finanziaria, quindi, il rapporto (nella media dei 17 paesi) è salito di quasi 40 punti percentuali.

Malgrado questa evidenza, viene periodicamente riproposta la possibilità che istituzioni non bancarie conquistino un ruolo centrale nell’intermediazione creditizia, in altri termini uno scenario “banking without banks”. Negli anni ’90 a dare forza a questa possibilità è stata la rapidissima progressione dell’informatica, progressi che secondo Bill Gates rendevano le banche simili ai dinosauri, cioè istituzioni datate, impermeabili al cambiamento e quindi destinate all’estinzione. In questo scenario l’intermediazione creditizia sarebbe sopravvissuta ma in forme nuove e con protagonisti diversi dalle banche tradizionali.

In realtà, le banche hanno abbandonato alcune attività ma nel complesso non sono state travolte da questo cambiamento cui hanno reagito con un intenso processo di rinnovamento. I dati del recente passato sono chiari: tra il 2002 e il 2013, l’intermediazione finanziaria mondiale (derivati esclusi) è aumentata dell’88% (+$132 trilioni, a $283 trilioni); l’insieme dei titoli di debito è cresciuto del 130%, del 100% se si considerano i soli emittenti privati (finanziari e non finanziari); gli attivi bancari del 41% (a $120 trilioni). Nell’arco di appena undici anni il peso delle banche nell’aggregato si è ridotto di circa 14 punti percentuali ma gli attivi bancari sono comunque aumentati di $35 trilioni.

La domanda se lo scenario “banking without banks” ha un fondamento non può avere una risposta netta, né in senso positivo né in senso negativo. Una risposta ragionevole può essere: scenario possibile ma certo non imminente. I dati sopra proposti segnalano che un’erosione del peso relativo delle banche nella sfera finanziaria è in effetti avvenuta ma in parallelo con un aumento molto pronunciato dell’intermediazione finanziaria complessiva. Di qui una crescita comunque molto rilevante degli attivi bancari.

Una recente ricerca [O. Jorda – M. Schularick – A.M. Taylor, The Great Mortgaging: Housing Finance, Crises, and Business Cyclees, Federal Reserve Bank of San Francisco, WP 2014-23, settembre 2014] ha messo in evidenza che gran parte della crescita del credito è dovuta ai mutui immobiliari (residenziali e non). Se si scompone la crescita del rapporto credito bancario/pil tra il 1960 e il 2010 si scopre che per quasi tre quarti è dovuta appunto ai mutui immobiliari; per numerosi paesi (tra essi, Stati Uniti e Regno Unito ma anche Italia) l’apporto sale a quattro quinti e oltre.

Nell’insieme dei paesi avanzati la quota dei mutui immobiliari sul totale dei prestiti è passata da circa il 40% a metà degli anni ’80 a circa il 60% nel 2007. Al di sopra di questa soglia si trovano, oltre a Regno Unito (63%) e Stati Uniti (68%), anche Norvegia (68%) e Svizzera (oltre 80%). Aspetto importante da sottolineare è che questa tendenza è condivisa da tutti i paesi (solo la Finlandia sembra esserne estranea). Parallelamente all’accresciuto ruolo dei mutui immobiliari, l’incidenza dei finanziamenti alle imprese e di quelli alle famiglie diversi dai mutui immobiliari si è ridotta dal 65% del 1970 a meno del 40% nel 2007.

Il finanziamento delle imprese è aspetto centrale nella considerazione del possibile processo di disintermediazione delle banche. Alla fine dello scorso anno i prestiti alle imprese risultavano a livello globale pari a circa $3,9 trilioni, recuperando il valore toccato immediatamente prima dello scoppio della crisi finanziaria; nello stesso arco di tempo (sei anni) i corporate bond sono aumentati del 70% superando $1,5 trilioni. Il dato 2014 è peraltro appannato (-10% a/a) dalla significativa flessione del flusso di emissioni in molti paesi emergenti. Lo spiazzamento dei prestiti bancari è ancora più evidente se si considera la sola fascia delle imprese a moderato rischio di credito (investment grade): in questo caso ad un quasi dimezzamento dei prestiti bancari (da $1,4 a 0,75 trilioni) si contrappone un incremento del 60% delle emissioni di titoli di debito societari (da $0,7 a 1,15 trilioni).

Il trend appena indicato è comune alla generalità dei paesi avanzati, sebbene con intensità ampiamente differenziata. Posto uguale a 100 l’ammontare dello stock dei corporate bond nel dicembre 2007, a fine 2014 l’area euro si posizionava a 155, un livello che sintetizza la stasi della Germania (103), l’involuzione dell’Olanda (a 125 a fine 2012 per poi tornare a 109 alla fine dello scorso anno) e la forte crescita di Spagna (163 a fine 2014), Francia (183) e Italia (203). In Cina, seppure muovendo da un valore molto ridotto considerate le dimensioni del paese (appena $180 mld a metà 2008), l’ammontare dei titoli di debito societari in poco più di 5 anni risulta quasi moltiplicato per otto ($ 1.400 mld a fine 2013).

L’intenso processo di trasformazione riassunto da questi dati ha reso le banche del mondo avanzato da un lato decisamente più esposte sul fronte immobiliare, dall’altro lato ha esaltato la loro capacità di trasformazione delle scadenze (finanziamento dell’investimento immobiliare con risorse a più contenuta scadenza). Questo processo di riorientamento dell’attività bancaria avrebbe molte cause ma in particolare due. La prima è individuabile nelle politiche d’incentivazione (fiscali ma non solo) adottate dai governi per sostenere le famiglie nell’acquisto della propria abitazione. L’altra importante causa è individuata nella riparametrazione del rischio di credito stabilita dagli accordi di Basilea che ha privilegiato i prestiti per l’acquisto di abitazione e conseguentemente disincentivato gli altri prestiti ma in particolare il finanziamento delle imprese. In definitiva, secondo questa lettura, il ridimensionamento del ruolo delle banche sul fronte del finanziamento delle imprese è in gran parte un risultato cercato piuttosto che una disintermediazione subita ad opera di altre tipologie di operatori finanziari.

Recuperando il quesito iniziale (lo scenario “banking without banks” ha un fondamento?) una risposta meno aperta sembra possibile su altri due fronti.

Il primo è quello della pressione concorrenziale esercitata dal cosiddetto shadow banking, espressione che copre l’insieme di intermediari finanziari non bancari che riesce in forme diverse a sostituire le banche commerciali tradizionali nella loro funzione di fonte di finanziamento.

E’ importante rilevare che shadow banking è espressione spesso contestata tanto in ambito ufficiale quanto nel mondo accademico non solo perché attribuisce un carattere pregiudizialmente negativo all’intermediazione finanziaria non bancaria ma anche perché lascia intravedere la possibilità di una chiara collocazione degli operatori (banche comprese) nell’ambito dell’intermediazione finanziaria. Come da tempo evidenziato questo non è affatto vero: non trascurabile, infatti, è la presenza nel sistema bancario ombra di società di emanazione bancaria. Per queste ragioni, a shadow banking viene a volte preferita l’espressione “market-based financing”; nella versione italiana, “sistema bancario collaterale” invece di “sistema bancario ombra”.

Il Fsb (Financial Stability Board) elabora una stima relativamente puntuale dello shadow banking. A comporre questa più ristretta definizione sono solo le istituzioni che rispettano contemporaneamente queste tre condizioni: essere coinvolte in una filiera creditizia; non essere consolidate in un gruppo bancario; non svolgere solo una parte dell’attività bancaria (ad esempio, sola trasformazione delle scadenze e/o del grado di liquidità, etc.). Queste condizioni, tra l’altro, portano ad escludere dallo shadow banking le istituzioni al centro dell’attività di autocartolarizzazione (self-securitization) e le istituzioni che forniscono apporti di capitale (ad esempio, gli equity fund).

Se si fa riferimento alla definizione più ristretta del sistema bancario ombra messa a punto dal Fsb si ricava che per i soli 23 paesi in grado di fornire le necessarie informazioni, la sua dimensione è stimabile in $35 trilioni, con una crescita di circa $1 trilione (meno del 2,5%) rispetto al 2012. L’aspetto che qui è utile mettere in evidenza è che il suo ritmo di crescita risulta da un triennio in costante ridimensionamento, con il dato più recente pari a meno della metà di quello di due anni fa.

Infine, la minaccia informatica evocata negli anni ’90 da Bill Gates trova una risposta ancor più nettamente negativa. Nuove modalità di utilizzo di internet sono spesso indicate come possibile causa di un processo di disintermediazione del circuito bancario tradizionale. Un processo di questo tipo, in effetti, è da tempo in corso ma i volumi ad esso associati sono molto limitati tanto da farne una novità nel costume piuttosto che un fenomeno finanziario, considerazione valida soprattutto al di fuori degli Stati Uniti. Esperienze come il peer-to-peer lending (p2p) o il crowdfunding confermano pienamente questa valutazione.