La Borsa guarda con favore alle banche statunitensi, i cui consuntivi 2018 si presentano in effetti brillanti. Al positivo risultato dell’attività operativa si accompagna l’importante beneficio (oltre metà della crescita dell’utile netto) derivante dalla riforma fiscale varata dall’amministrazione Trump. Il sistema bancario statunitense appare complessivamente risanato. In alcuni settori del mercato dei finanziamenti bancari si colgono, tuttavia, preoccupanti criticità.
Gli istituti di credito statunitensi godono attualmente di una favorevole considerazione in Borsa (+ 16% circa la crescita dei titoli dei gruppi maggiori da inizio anno). Si tratta di un parziale recupero dopo la forte flessione dello scorso anno (-24%) e riflette un miglioramento di prospettive rilevabile a livello internazionale per la generalità del settore creditizio. Alle banche statunitensi viene riconosciuto un rilevante potenziale, come evidenziato dal livello del price to book ratio (P/B, rapporto tra quotazione e valore contabile), ora prossimo a 1,4, ben al di sopra quindi di quanto in media rilevabile per le grandi banche europee (al di sotto di 0,8).
Tra i molti fattori che contribuiscono a spiegare questa positiva fase borsistica tre hanno un ruolo prevalente: due consolidati da tempo, il terzo invece più recente. Il primo di questi fattori è individuabile nella dinamica economica nazionale. Anche se con una intensità inferiore al trend di lungo termine, l’economia americana sta prolungando un ciclo espansivo la cui durata è ormai prossima ai dieci anni, il più lungo di sempre. Il 2018 si è concluso con una crescita media soddisfacente (+2,9%), ma ha proposto negli ultimi mesi segnali di rallentamento. Seppure l’inaspettata ripresa del primo trimestre di quest’anno (+3,2% a/a) abbia per ora allontanato le ipotesi peggiori, la maggior parte degli analisti posiziona poco sopra il 2% la previsione di sviluppo per il biennio appena iniziato.
Una seconda circostanza che ha contribuito a sostenere la performance del settore bancario statunitense è il non doversi confrontare con uno scenario di rendimenti finanziari negativi. Durante gli anni più difficili il tasso di remunerazione delle riserve bancarie in eccesso depositate presso la Federal Reserve è stato ridotto fino ad un minimo del +0,25%. Su questo livello è rimasto per circa 8 anni, cioè fino al dicembre 2015, quando è cominciato il processo di superamento della fase di politica monetaria eccezionalmente accomodante. Questo processo è tutt’ora in atto, seppure stemperato dalle decisioni assunte nel marzo scorso.
La remunerazione attualmente offerta dalla Fed sulla liquidità in eccesso è fissata al 2,40%, un livello che, unitamente a quello degli altri tassi-guida, sostiene l’intera struttura dei rendimenti finanziari statunitensi. Questo scenario è ben diverso da quello prevalente nell’eurosistema ove il tasso sui depositi overnight è in territorio negativo dal giugno 2014 e dal marzo 2016 è fissato al -0,40%. Tutto ciò ha determinato negli Stati Uniti un andamento della redditività bancaria ben più favorevole che altrove: il rendimento medio degli attivi bancari fruttiferi degli istituti di credito statunitensi, dopo aver toccato un minimo nel primo trimestre 2015, ha iniziato un significativo processo di recupero, quantificabile in 40 punti base (al 3,35% del quarto trimestre 2018, ultimo disponibile).
Secondo i dati della FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation), l’insieme delle banche statunitensi ha chiuso il bilancio 2018 con un RoE netto in doppia cifra (12%). Ampiamente al di sopra dell’anno precedente (+8,6%) su cui ha pesato la prima fase di applicazione della riforma fiscale dell’amministrazione Trump. Nel quinquennio 2014-18 il RoE medio delle istituzioni creditizie statunitensi è risultato pari al 9,6%, consuntivo favorevole e ben più soddisfacente rispetto a quanto rilevato altrove nel mondo (in Europa ci si è fermati poco sopra al 5%).
Il positivo risultato conseguito nel 2018 è stato determinato dalla forte crescita dei ricavi (+7%), per quattro quinti attribuibile alla crescita del margine d’interesse (+8,5%), avvenuta a fronte di una crescita del volume dei prestiti ben più contenuta (+4,4%). Questo progresso dei ricavi risulta da un lato rafforzato dalla diminuzione (-2,2%) degli accantonamenti stanziati per preservare la qualità del portafoglio prestiti, dall’altro lato appena sminuito dalla contemporanea crescita dei costi (+3,8%). Tuttavia, il forte miglioramento del risultato operativo che si è così determinato (+11%), spiega meno della metà della crescita dell’utile netto.
L’altra metà del significativo incremento di questa grandezza si deve al più ridotto prelievo fiscale. La riforma fiscale varata dall’amministrazione Trump, se inizialmente ha determinato un aggravio straordinario di non trascurabile entità (nel 2017 il prelievo è aumentato di oltre 20 mld di dollari), ha però aperto la strada ad una strutturale riduzione dell’onere fiscale sopportato dalle banche: il prelievo fiscale a loro carico risulta nel 2018 ridotto di 37 mld di dollari rispetto all’anno precedente, posizionandosi quindi ben al di sotto di quanto rilevabile nell’anno (2016) precedente la riforma.
L’andamento favorevole sembra confermato dai risultati conseguiti nel primo trimestre dell’anno in corso. La dinamica dei mercati finanziari, tuttavia, ha sensibilmente differenziato tra loro i maggiori gruppi bancari, premiando quelli con una più forte vocazione al finanziamento dell’economia reale e penalizzando invece i gruppi il cui risultato finale è in più ampia misura riconducibile all’attività di trading.
I dati aggregati evidenziano che il sistema bancario americano è uscito dal tunnel in cui era entrato con la crisi del 2008-09 e si presenta oggi complessivamente risanato. Negli ultimi cinque anni il costo del rischio (rapporto tra nuovi accantonamenti prudenziali e portafoglio prestiti) si è posizionato al di sotto del mezzo punto percentuale. Su un ammontare di finanziamenti superiore a $ 10 trilioni, quelli con pagamenti irregolari alla fine del 2018 sono pari ad appena $100 mld (1% circa), ridotti di circa un quarto nell’ultimo biennio.
La frequenza degli istituti bancari in condizione di squilibrio strutturale (problem institution) è passata dai 651 del 2012 ai 60 dello scorso anno. Quelli che hanno chiuso l’esercizio in perdita sono passati dall’11% del 2012 al 3,2% dello scorso anno, meno di 180 istituti (su un totale di circa 5.400) e tutti di dimensioni particolarmente ridotte. Da quattro anni il numero dei fallimenti bancari è al di sotto della doppia cifra e nel 2018 è sceso addirittura a zero. Per comprendere questo andamento è necessario richiamare come viene gestita negli Stati Uniti la situazione di una banca in difficoltà (o peggio).
Nel complesso, vi è un’ampia flessibilità nell’uso degli strumenti di risoluzione e un ampio accesso, seppure temporaneo, a fonti di finanziamento pubblico. Ciò consente di gestire le crisi in modo da minimizzare la frequenza dei fallimenti e quindi gli impatti sulla stabilità complessiva del sistema finanziario. A differenza di quanto previsto in Europa, l’utilizzo dei fondi pubblici non è soggetto a soglie minime di perdite da imporre ai creditori.
Anche negli Stati Uniti sono fissati limiti all’intervento pubblico: la legislazione, infatti, contiene un espresso divieto di salvataggio mediante l’impiego di fondi pubblici (bail-out). Per finanziare la risoluzione di un operatore in grave difficoltà il Tesoro può mettere a disposizione fondi che – nel limite del possibile – saranno oggetto di recupero attraverso la cessione delle attività dell’intermediario oggetto della procedura.
Nel sistema statunitense esiste una netta differenza tra gli interventi che riguardano banche di dimensione rilevante e gli interventi previsti per banche non a rilevanza sistemica. In caso di difficoltà, queste ultime sono soggette a una procedura speciale gestita dalla FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation), che opera cercando contemporaneamente di minimizzare i propri oneri e di massimizzare il valore a beneficio dei creditori. L’obiettivo di minimizzare il costo può essere derogato qualora implichi rilevanti effetti negativi sulle condizioni economiche o sulla stabilità finanziaria. Questo modo di operare è ben visibile nei dati del 2018, ove all’assenza di fallimenti bancari si affianca una frequenza relativamente elevata di operazioni di aggregazione (259, tranne una, tutte relative a istituti di dimensione molto ridotta).
Nel complesso il sistema bancario statunitense ha, quindi, realizzato in questi anni un innegabile rafforzamento. Ad incrinare questa solidità potrebbero essere dinamiche finanziarie riconducibili alla marcata propensione al debito della società americana. Se da un lato il costituirsi di significative situazioni di squilibrio riguarda per ora ambiti di mercato relativamente limitati, dall’altro lato è ancora fresco il ricordo delle straordinarie ricadute di quanto avvenuto nel 2007-08 in un mercato “minore” come quello dei mutui subprime.
Nel quarto trimestre del 2018 l’indebitamento delle famiglie ha fatto registrare il 18° aumento trimestrale consecutivo, attestandosi a $13,5 trilioni, il 7% in più rispetto al massimo raggiunto nel terzo trimestre del 2008 e oltre il 20% al di sopra del minimo toccato a metà 2013. I mutui immobiliari ($9,1 trilioni) costituiscono i due terzi di quest’aggregato, con il resto legato a pagamenti con carta di credito ($0,9 trilioni), finanziamenti per l’acquisto di autovetture ($1,3 trilioni) e prestiti per il completamento di periodi di istruzione (student loans, $1,5 trilioni).
Per l’insieme di questi finanziamenti alle famiglie, la quota di quelli con pagamenti irregolari è pari al 4,7%, per 2/3 “seriously delinquent” (ritardi superiori a 90 giorni). In questa situazione di gravità si trova l’1,1% dei mutui. Si sale invece al 4,5% per i finanziamenti concessi per l’acquisto di autovetture, al 7,8% per quelli legati all’uso di carte di credito, all’11,4% per gli student loans. Indicazioni ugualmente sfavorevoli si traggono se si considera la situazione sotto il profilo dinamico: nell’ultima parte del 2018 situazioni di grave deterioramento si sono presentate ad un ritmo annuo del 9,1% nel caso degli student loans e del 5% per i prestiti connessi all’uso delle carte di credito.
Decisamente più sotto controllo la situazione nel campo dei mutui immobiliari, dove ci si ferma all’1,1%. È difficile stabilire quanto a lungo durerà questa situazione. Nell’ambito delle nuove erogazioni i mutui concessi a clientela con un punteggio inferiore a 660 (orientativamente lo score che separa la clientela ancora accettabile da quella a rischio elevato) risultano pari a circa un decimo del totale, a fronte del 31% rilevabile per i finanziamenti finalizzati all’acquisto di un’autovettura. D’altra parte, però, quasi l’80% dei nuovi mutui erogati nel primo trimestre 2019 sarebbe del tipo “interest rate only”, che prevedono per un periodo non breve (5-10 anni) il pagamento dei soli interessi, formula evidentemente adatta a chi registra una progressione di reddito ma per questo molto esposta alle fortune della congiuntura.
Criticità si rilevano anche sul fronte delle imprese, il cui indebitamento bancario in rapporto al Pil sfiorava il 74% a fine settembre 2018 , con una crescita di sette punti percentuali in cinque anni. La condizione tipica delle imprese risulta in questi anni migliorata: la percentuale delle imprese in precaria condizione finanziaria (debito pari a oltre 5 volte i ricavi) è ora ben al di sotto del 42% toccato nel 2007.
Nell’ambito del mercato dei prestiti alle imprese si rilevano comparti di attività vulnerabili. È il caso, ad esempio, dei leveraged loans, il cui ammontare a fine del 2018 avrebbe raggiunto $1,3 trilioni, il doppio rispetto al 2012. Si tratta di prestiti ad elevato livello di rischio perché concessi ad imprese in fragile condizione finanziaria e per questo remunerati con un più elevato tasso d’interesse. Quest’ultimo è quasi sempre variabile e modificabile ogni 30-90 giorni.
A rendere vulnerabile questo canale di finanziamento sono due novità diffusesi negli ultimi anni. La prima concerne le condizioni (covenants) che consentono al finanziatore di chiedere il rimborso anticipato nel caso di un serio deterioramento della situazione del prenditore. Negli ultimi tempi una quota crescente di questo mercato è stata occupata dai covenant lite loans, prestiti nei cui contratti la parte occupata dai covenants è decisamente più “leggera” e che quindi offrono meno opportunità al finanziatore di disimpegnarsi. Secondo alcune stime, la quota dei covenant lite loans sarebbe passata dal 25% del 2007 all’attuale 80%.
Altrettanto importante è l’altra trasformazione in atto nel mercato, quella individuabile nella cartolarizzazione di una quota crescente di questi prestiti. I titoli emessi, caratterizzati da rendimenti più elevati di quelli mediamente prevalenti nel mercato, sono accumulati in ammontare crescente nel portafoglio dei gestori di patrimoni. Com’è noto, questi operatori sono molto reattivi rispetto a mutamenti della congiuntura perché più di altri esposti ad un rischio liquidità nel caso di un repentino e consistente incremento dei riscatti. La rapida crescita del mercato dei leveraged loans, quindi, sta in parallelo alimentando un crescente rischio di instabilità.