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Analisi
Meno Stati Uniti, più Cina

Intervista a Paolo Moia, responsabile Asset Management di Banca Profilo La perdita di centralità del dollaro. Le opportunità dei titoli in renminbi. La via della Seta. Quanto ai titoli difensivi... Come orientare il portafoglio

G.P.

L’economia mondiale decelera. È colpita dalla forte riduzione del commercio internazionale conseguente alla guerra dei dazi, ma anche al rallentamento endogeno della Cina e all’arresto della locomotiva tedesca. In questo quadro abbiamo chiesto a Paolo Moia, responsabile Asset Management di Banca Profilo, la sua visione sull’economia mondiale. 

Di recente lei ha espresso una view interessante sul dollaro USA, la cui “militarizzazione” potrebbe far perdere al biglietto verde parte della sua centralità. Su cosa si basa questa opinione? 

«A partire dalla Seconda guerra mondiale il dollaro americano ha goduto dello status di sostanzialmente unica moneta di riserva e di scambio. Questo ruolo è stato rafforzato a partire dall’accordo con l’Arabia Saudita nel 1973, che ha visto la nascita dei petrodollari. Questo accordo ha di fatto obbligato tutti i paesi importatori di petrolio a detenere una parte consistente delle proprie riserve ufficiali in dollari. Ha inoltre consentito agli Stati Uniti di finanziare ancor più il proprio deficit commerciale nella propria valuta. 

La centralità del dollaro naturalmente non si basava soltanto su questi fattori ma su una sostanziale neutralità del biglietto verde ovvero sul fatto che fosse espressione di una nazione che garantiva il rispetto delle regole, imponendole innanzitutto a se stessa. Ultimamente la situazione è cambiata: gli Stati Uniti sostengono la propria giurisdizione sulle transazioni e i depositi in dollari anche al di fuori dai propri confini. Per una nazione invisa all’amministrazione americana diventa pertanto rischioso detenere liquidità in dollari, che può essere sanzionata o sequestrata ovunque sia depositata. In questo senso possiamo parlare di militarizzazione del dollaro e perdita di neutralità. 

Questo sta inducendo gli stati a rischio, vedi Russia o Iran, a utilizzare valute diverse dal dollaro nelle vendite di petrolio e a non convertire in dollari i proventi così ottenuti. L’effetto collaterale della militarizzazione del dollaro rischia pertanto di essere l’erosione della sua autorevolezza e delle garanzie che la comunità internazionale vi ha sempre visto racchiuse».

La Cina sta rallentando. È passata da tassi di sviluppo vicini al 10 per cento a un livello più contenuto, intorno al 6 per cento. Quali sono le prospettive economiche e quelle per il renminbi? Come è cambiato o sta cambiando il modello di sviluppo cinese? 

«Raggiunta una dimensione paragonabile all’economia americana o a quella europea, era inevitabile che l’economia cinese non riuscisse a mantenere i tassi di crescita di qualche anno fa. Tassi che sono destinati a diminuire ulteriormente, e a convergere verso quelli dei paesi occidentali. Per almeno due motivi. Innanzitutto i guadagni di produttività saranno limitati dall’aver sostanzialmente completato il processo di urbanizzazione delle maggiori aree e i collegamenti fra queste e dall’introduzione su larga scala delle nuove tecnologie. 

In secondo luogo, la forza lavoro ha raggiunto il suo picco alcuni anni fa ed è destinata a diminuire, anche in conseguenza della politica del figlio unico. Il paese ha quindi di fronte a sé la sfida di gestire l’enorme debito accumulato per finanziare la crescita, allorché la crescita sarà meno impetuosa e con saldi nei conti con l’estero molto meno positivi che in passato. Vedremo quindi se la guida del paese sarà in grado di cementare il patto sociale basato sullo scambio tra una libertà personale ridotta e la prospettiva di un maggiore benessere economico. 

Contestualmente la Cina dovrà affiancare al progetto geo-politico-economico della Via della Seta quello dell’internazionalizzazione del renminbi, per farne la valuta di scambio e riserva dei paesi coinvolti nell’iniziativa. Ciò dovrà necessariamente passare per la stabilizzazione del rapporto di cambio con il dollaro e con l’euro. Una sfida in più per il dragone che non potrà contare sull’arma della svalutazione per aumentare la competitività delle proprie esportazioni». 

Come vede più in generale le prospettive per l’Asia e per il Giappone in particolare? 

«Nei prossimi anni, non solo a causa della guerra commerciale ma anche in conseguenza del cambiamento del modello di sviluppo di molti paesi emergenti, la singola value chain globale che ha dominato i sistemi produttivi negli ultimi due decenni verrà sostituita da catene del valore regionali. Una di queste coinciderà con l’area euroasiatica oggetto del piano di integrazione cinese denominato Via della Seta. Le opportunità di sviluppo dell’area e delle aziende che vi risiedono saranno consistenti. 

Il Giappone, superpotenza tecnologica grazie alle conoscenze accumulate in settori quali la robotica o le auto elettriche sarà in grado di sfruttare queste opportunità. Oltretutto la borsa giapponese è stata trascurata dagli investitori internazionali e non rischia di patire fenomeni di sovra esposizione dei portafogli, anzi semmai il contrario, con flussi di acquisto obbligati ad inseguire il mercato al rialzo».

Come gestire i portafogli in questa congiuntura, caratterizzata da un rallentamento generalizzato dalla crescita e dal ritorno dei tassi bassi o negativi? 

«L’assetto macroeconomico attuale è sicuramente più complesso rispetto a quelle degli scorsi anni quando una crescita positiva, robusta e generalizzata suggeriva di impostare i portafogli in modalità reflazionistica, dando quindi priorità agli strumenti finanziari più prossimi al capitale d’impresa quali le azioni, le obbligazioni convertibili e le obbligazioni societarie. 

Oggi prima di pensare agli strumenti da inserire nei portafogli è necessario interrogarsi sulla quantità di rischio da assumere, su quanto utilizzare il risk budget assegnato al gestore. Questo utilizzo deve essere più basso rispetto al recente passato in considerazione della mancanza di opportunità di investimento a basso rischio: le valutazioni del mercato obbligazionario sono molto risicate mentre quelle dei mercati azionari sono al più allineate con le medie storiche, di certo non allettanti. 

Nonostante ciò, non mancano alcune alternative interessanti. Nell’area asiatica, ad esempio, ho gia ricordato le potenzialità della borsa giapponese, sottovalutata e poco frequentata. Nel mercato obbligazionario vale la pena prendere in considerazione le obbligazioni in renminbi, tra le poche ad offrire rendimenti positivi e con un rischio di cambio accettabile, dato che l’internazionalizzazione della valuta cinese non può prescindere dalla sua stabilizzazione. Dal punto di vista difensivo, invece, è necessario iniziare a cautelarsi da una possibile e moderata ripresa dell’inflazione e da politiche monetarie ancor più non convenzionali rispetto a quelle viste negli ultimi anni. Obbligazioni indicizzate all’inflazione e oro sono gli strumenti giusti».

E l’Italia? 

«L’Italia è ferma al palo da molti anni, ma si trova, insolitamente, in una fase potenzialmente meno critica, in quanto – secondo le previsioni del CER – il punto di minimo sarà toccato quest’anno, con una crescita intorno allo zero, mentre per il 2020 la crescita potrà attestarsi intorno a un mezzo punto percentuale (si va dallo 0,4 della NaDef allo 0,6% per cento previsto dal CER)» .  

La ritrovata fiducia dei mercati – testimoniata dalla riduzione dello spread – potrà durare? 

«In questi anni l’Italia ha dimostrato la difficoltà a brillare di luce propria e quando lo ha fatto, purtroppo, spesso lo ha fatto in negativo. La riduzione dello spread è più sintomatica di uno scampato pericolo e della spasmodica ricerca di rendimento in un mondo di tassi negativi che di un genuino cambio di atteggiamento da parte degli investitori internazionali. 

L’Italia soffre di due problemi, uno evidente e dibattuto, l’altro meno. Il debito pubblico condiziona tutte le scelte di politica economica e ci condanna alla bassa produttività causata dalla scarsità di investimenti in infrastrutture, ricerca, istruzione. L’altro problema è l’eccessiva dipendenza dalle esportazioni, in particolare nel settore automobilistico dove di fatto siamo diventati dei sub-fornitori delle case estere. Ciò ci lega a doppio filo alla congiuntura internazionale, e in questo momento non è una situazione confortante. Attenzione anche al fatto che la stabilità politica, ritrovata dopo le turbolenze agostane, verrà messa a dura prova dalla legge di bilancio e dai successivi strascichi».

G.P.

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