Il dollaro è troppo forte e danneggia l'economia americana, hanno detto Trump e Vance. Ma come pilotarne la svalutazione conservando il suo ruolo di valuta di riserva e pivot degli scambi mondiali? Ecco la strategia che filtra dal clan del presidente
Il clima entusiastico che circondava l’elezione di Trump nel mondo degli affari, un’era fatta di deregulation in cui gli Usa sarebbero stati la forza trainate, tra tagli di tasse, rilancio dell’M&A, mille nuove Ipo in una borsa lanciata verso traguardi crescenti, una prospettiva che ai Ceo delle corporation e ai top executive delle grandi banche, riuniti a gennaio a Davos, faceva sentenziare che l’Europa sarebbe uscita dai radar e la Cina sarebbe stata addomesticata, ebbene quel clima si è trasformato in un incubo, il mondo nuovo si è rivelato un paese dei balocchi dominato da un Caligola capriccioso che minaccia con i dazi orecchie d’asino per tutti.
L’instabilità è diventata la regola: l’indice Vix, che misura la volatilità dei mercati, si è impennato come nei momenti peggiori delle grandi crisi finanziarie, autorevoli economisti come Larry Summers, ex segretario al Tesoro e Jamie Dimon, capo di JPMorgan Chase, stimano probabile una recessione o almeno un stagflazione, il commercio internazionale si impalla, l’inflazione è in rialzo, il dollaro scende, i Treasury, i titoli di Stato con cui gli Stati Uniti finanziano l’enorme debito pubblico, scottano nelle mani di chi li ha comprati fidando sul loro status di “safe heaven” e vengono scaricati con una velocità che non si era mai vista.
Siamo di fronte all’armageddon: la fine del ruolo degli Usa come paese guida in termini economici e culturali, il patrimonio di credibilità di Washington dilapidato in poche settimane, con i possessori stranieri del 18 per cento dei titoli di Wall Street che devono a Trump le perdite subìte e voltano le spalle allo Standar&Poor’s e al Nasdaq in cerca di altri investimenti, l’imprevedibilità e l’abuso di potere diventati regola e tattica negoziale.
Anche se ciò che appare, oggi, è l’immagine di un’operazione a cuore aperto sull’economia mondiale eseguita da un principiante, dietro le mosse di Trump e del suo team ci sono teorie e obiettivi. Molti dei quali ancora non del tutto chiariti.
In quel mix di populismo a favore degli american workers e dei loro valori, e di deregulation a favore dei tech lord che è l’agenda MAGA, un posto di rilievo lo ha il dollaro. E sul dollaro e sul suo ruolo di chiave di volta dell’assetto globale in campo finanziario e commerciale, si concentrano interpretazioni che possono portare a nuove sorprese.
Il dollaro è diventato negli anni troppo forte e danneggia l’industria americana, ha detto Trump in campagna elettorale e ha ribadito poi il suo vice JD Vance. Come portarlo su un cammino diverso da quello che ha percorso, a partire dall’amministrazione Clinton, dello “strong dollar”, ma nello stesso tempo compiere la missione di “fare l’America di nuovo grande”?
La cornice di questa strategia si chiama Mar-a-Lago Accord. Un accordo di cui nessuno conosce esattamente il testo, ma di cui abbondano i dettagli. Consiste in pratica nel rivedere lo storico accordo del Plaza che nel 1985 fu concordato in piena segretezza tra Usa, Francia, Germania, Giappone e UK – le cinque grandi economie del mondo all’epoca – per pilotare una svalutazione del dollaro e sanare gli squilibri internazionali nella bilancia dei conti correnti che la sua crescita eccessiva aveva generato. Un problema che, dagli accordi di Bretton Woods del 1944 in poi, si è presentato a più riprese. Prima per via della convertibilità dollaro-oro, poi anche dopo la fine del gold standard voluto da Richard Nixon, negli anni ’70. E sempre, nonostante il tentativo di far diventare il dollaro una valuta come le altre, esso ha conservato la sua egemonia nel mondo come valuta di riserva, quella in cui avviene tuttora la maggior parte degli scambi a livello globale.
L’idea del capo degli economisti di Trump, Stephen Miran, ispiratore del Mar-a-Lago Accord, sarebbe quella di correggere al ribasso la forza del dollaro – che così com’è mette a rischio la competitività delle merci Usa – senza però rinunciare al suo ruolo come valuta di riserva internazionale, il che è comprensibile essendo questa la vera fonte dell’egemonia americana nel mondo (finché la Federal Reserve sarà lì a garantirla).
Come ottenere che un certo numero di nazioni – come avvenne al Plaza, ma in questo caso molte di più – accettino il progetto? Lo accettino, soprattutto, con la pistola puntata dei dazi minacciati da presidente?
L’arma per convincerli, nella strategia di Miran, sarebbe la promessa dell’ombrello difensivo Usa, sotto forma di protezione militare o di annullamento delle barriere tariffarie. Certo, serve una garanzia che l’intesa venga rispettata, e questa sarebbe di ordine finanziario: imporre lo scambio dei Treasury che quel paese ha in portafoglio con titoli americani a lunghissima scadenza, come i centenari Matusalem bond. In pratica, bond perpetui.
Lo scetticismo circonda questa ricetta nel mondo degli analisti, e a ragione. Resta però in piedi, nell’amministrazione Trump, l’idea di imporre un completo “reset” delle regole che hanno retto il sistema globale della finanza e del commercio, di cui anche il segretario al Tesoro Scott Bessent parla da tempo.
Nella visione del mondo di Bessent, i paesi si dividerebbero in tre categorie: i rossi che sono i nemici, i verdi gli alleati, i gialli i non allineati. Solo i verdi entrerebbero nel sistema degli accordi, e avrebbero la protezione militare del Mar-a-Lago Accord; i rossi ne sarebbero fuori del tutto; i gialli dovrebbero darsi da fare per assicurarsi delle intese con Washington nei diversi campi.
L’idea di trasformare il mercato dei Treasury, qualcosa come 30 trilioni di dollari di valore che sono un pilastro della finanza globale, in un’arma per sistemare una volta per tutte il debito Usa sotto forma di bond centenari, equivarrebbe per le agenzie di rating in una forma di default tecnico. Impossibile, inimmaginabile.
Ma quello che era inimmaginabile fino a poco tempo fa, si è già realizzato. E qualcuno si chiede se, per esempio, il Giappone, secondo grande detentore di US Treasury, dipendente dagli Usa per la propria difesa e con un forte bisogno di accesso al mercato americano, non potrebbe alla fine essere disponibile a convertire una parte dei suoi Treasury in titoli perpetui. Anche sapendo di non poterli considerare titoli liquidabili, visto che soltanto la Fed potrebbe scambiarli, e solo con altri titoli in dollari. Nel futuro distopico del trumpismo nulla è da escludere.