BANCA MONDIALE / REPUTAZIONE IN FRANTUMI?
Lo scandalo Doing Business

La Cina protesta per il posto in graduatoria? I vertici della banca Mondiale, dal presidente Kim al direttore generale Kristalina Georgieva intervengono per taroccare il voto. Ecco tutta la storia, ricostruita dall'indagine per il comitato etico della banca.

Paola Pilati

Una reputazione distrutta in 16 pagine. La Banca Mondiale, una delle due grandi istituzioni nate dopo Bretton Woods per governare lo sviluppo economico globale (l’altra è il Fondo Monetario), ha truccato le carte, aggiustato i voti in pagella e spinto sù in classifica paesi che zoppicavano, come neanche in una classe differenziale.

Il caso, che sta scuotendo Washington e nomi finora rispettati della sua nomenklatura economica, è scoppiato quando nel gennaio scorso il comitato etico della banca ha incaricato una società terza di investigare su un caso di presunte irregolarità nella costruzione del rapporto Doing Business 2018 e di quello 2020. Un rapporto che viene preso molto sul serio dagli investitori nel valutare su quali paesi puntare i propri soldi, e da sempre considerato molto autorevole.

Il risultato dell’indagine, 16 pagine di ricostruzione dei fatti, testimonianze e accuse, mette oggi sulla graticola il presidente della Banca, Jim Yong Kim, e Kristalina Georgieva (nella foto), economista bulgara che della Banca è stata direttore generale (oggi è managing director del Fondo monetario). Il sommo vertice insomma. Accusato di essere pesantemente intervenuto per forzare il giudizio del team che ogni anno stila Doing Business, la classifica sulla “facilità di fare affari”, attribuendo un posto in classifica a tutti i paesi e quindi permettendo un confronto tra di loro. Il giudizio “aggiustato” ha riguardato, nell’edizione 2018, nientemeno che la Cina. Nell’edizione 20202, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, a danno della Giordania.

La storia parte nel 2017, nel bel mezzo di una fase delicata della vita della Banca: era in corso un aumento di capitale da 13 miliardi di dollari, che i 187 paesi membri dovevano sottoscrivere per raddoppiare la potenza finanziaria dell’istituto, che ha la missione di supportare lo sviluppo dei paesi più arretrati del pianeta. Dalla casa Bianca, Trump sparava sul multilateralismo e sulla Cina, considerata tra l’altro un paese ormai in grado di reperire da sola finanziamenti sui mercati, piuttosto che chiederli alla World Bank, come pure altri paesi arrivati a un livello medio di reddito. Dover fare a meno della quota degli Usa per le stoccate di Trump e la resistenza della Cina a mettere la propria per timore che non fosse più conveniente, non faceva dormire sonni tranquilli al vertice di Washington.

È stato a quel punto che gli emissari del governo cinese si sono fatti avanti con Kim e con la Georgieva, lamentando che il Report Doing Business 2017 non aveva rappresentato correttamente i progressi del paesi in tema di riforme, e facevano capire di aspettarsi una promozione in classifica nel report successivo, quello per il 2018.

Il pressing cinese ha il suo successo: dallo staff di Kim iniziano interventi sul team di Doing Business per sapere come avrebbero giudicato la Cina. La risposta, però, è una doccia fredda. Rispetto alla posizione del 2017, il 78mo posto, il nuovo rapporto spinge la Cina alla casella numero 85. Non perché peggiorata, ma perché gli altri hanno fatto a loro volta meglio.

Ma agli uomini di Kim la cosa non sta bene affatto. E chiedono che la Cina venga promossa più in alto in classifica. Come si può fare? Soluzione: integrare nei dati della Cina quelli di Hong Kong farebbe fare al gigante asiatico uno scatto verso l’alto, raggiungendo quota 70. Entra però in campo la Georgieva, che fa presente che l’operazione non si può fare per “ragioni politiche” (la stretta su Hong Kong da parte di Pechino è successiva, e da léggere oggi anche con queste lenti). Serve un’altra soluzione.

Messi sotto pressione, quelli di Doing Business propongono di utilizzare i dati delle due città leader della Cina, cioè Pechino e Shanghai, che hanno voti altissimi quanto ambiente pro-business, senza annacquarli nella media paese, ma usandoli così come sono. Georgieva approva e si sente in salvo. Funzionerebbe, ma c’è un problema: usando lo stesso criterio per gli altri paesi, anche gli altri salirebbero nella classifica. Il miglioramento cinese, dunque, finirebbe per scomparire.

Serve un lavoro di fino. Se ne occupa Simeon Djankov, economista bulgaro come la Georgieva, ex primo ministro nel suo paese, e fondatore del progetto Doing Business all’inizio della sua carriera. Un intervento a gamba tesa – nel report verrà definito “bossy” – sul team di Doing Business ed ecco trovata la soluzione finale: valutare la nuova legge cinese sui prestiti con garanzie reali con il massimo della generosità, alzandone il punteggio per aumentare il peso finale. Essendo la legge limitata solo alla Cina si evitano effetti di traino sugli altri paesi, e Pechino risale dall’85mo al 78mo posto.

Finalmente il report annuale si può chiudere e pubblicare. E per essere certa che la cosa sia davvero andata a buon fine, la Georgieva va di persona a prendere una copia staffetta del report a casa di un manager di Doing Business durante il week end successivo, ringraziandolo di aver “risolto il problema”.

Nel 2019 si fanno avanti, come la Cina due anni prima, gli emissari del governo di Riyad. Si lamentano con Kim che la classifica di Doing Business non ha correttamente rappresentato i miglioramenti del loro paese. È il solito Djankov a intervenire: la Giordania si sta piazzando prima dell’Arabia Saudita nella classifica del report successivo, occorre taroccare anche questa graduatoria. La soluzione è presto trovata: dare più peso alla voce Legal Right, in considerazione del trattamento dei debiti, e ridurre invece la voce sul rispetto dei tempi per il pagamento della nuova Iva. L’effetto è di tirare su l’Arabia e anche la Uae, che ha un sistema di tassazione simile e di sorpassare la Giordania nella classifica finale.

Qual è il danno di tutta questa faccenda, una volta scoperchiata? Forse non tanto che personaggi di quella levatura si siano piegati alle pretese di questo o di quello per dei punti in classifica, taroccando la mappa delle convenienze del business internazionale. E neanche che una organizzazione di quel prestigio si sia mostrata incline alle ragioni della realpolitik.

Più inquietante è lo squarcio sul sistema dei rapporti interni in una istituzione prestigiosa e non priva di mezzi, che dovrebbe imporre e tutelare la completa indipendenza dei professionisti ingaggiati. Invece, il rapporto parla di “toxic culture” nel team di Doing Business: gli esperti hanno subìto senza reagire le pressioni dei vertici – gli uomini di Kim, la Georgieva e Djankov – perché pensavano di non trovare orecchie disposte ad ascoltarli, nel vertice della Banca, e quindi di non essere protetti né creduti. Si sono sentiti minacciati di perdere il posto (per molti significava anche perdere il permesso per restare negli Usa), insomma si sono sentiti sotto ricatto.

Senza contare un ultimo risvolto: il team di Doing Business fornisce un servizio di advisory ai paesi per guidarli nelle riforme. Servizio che è a pagamento. Facile quindi che si crei un conflitto di interessi, o quantomeno un’area di ambiguità: i paesi che hanno pagato il servizio si aspettano di essere promossi in classifica; la mancanza di un miglioramento in classifica indica che l’advisory è stato inutile o insufficiente.

Naturalmente i diretti interessati hanno respinto sdegnati le accuse.