La pandemia ha causato una recessione inedita sia nella sua meccanica, sia nella rapidità e gravità del crollo dell’attività produttiva. L’anomalia della situazione ha richiesto l’utilizzo di strumenti analitici e di misure di politica economica mai sperimentate in precedenza. Questo numero di Economia italiana, guest editor Riccardo Barbieri, capo economista del Tesoro, e Francesco Nucci, professore di economia alla Sapienza, è dedicato alle sfide che attendono il nostro Paese nella fase di ripartenza dopo la crisi pandemica.
La pandemia da Covid-19 ha causato una recessione inedita sia nella sua meccanica, sia nella rapidità e gravità del crollo dell’attività produttiva. L’anomalia della situazione ha richiesto l’utilizzo di strumenti analitici e di misure di politica economica mai sperimentate in precedenza. Nel momento in cui imponevano drastiche restrizioni ai contatti sociali, alla mobilità e alle attività produttive, i governi hanno anche dovuto rapidamente escogitare nuovi strumenti per sostenere lavoratori e imprese che subivano chiusure totali o gravi perdite di fatturato.
Questa sezione monografica di Economia Italiana è dedicata alle sfide che attendono il nostro Paese nella fase di ripartenza dopo la crisi pandemica, fase che oggi appare meno lontana dato il buon andamento delle vaccinazioni contro il SARS-CoV-2. Per analizzare tali sfide, è utile comprendere quanto sia avvenuto dal febbraio dell’anno scorso e come gli strumenti di analisi e di politica economica siano rapidamente evoluti in risposta ad una tipologia di crisi che il mondo non sperimentava da circa un secolo. I primi due contributi di questa sezione analizzano l’impatto della crisi Covid-19 sulla liquidità delle imprese e sull’occupazione, e consentono anche di valutare la congruità degli interventi di sostegno attuati dal Governo durante la prima fase della pandemia.
Il saggio di Fabiano Schivardi e Guido Romano illustra come le chiusure disposte dalle autorità durante la prima ondata della pandemia abbiano causato un rapido peggioramento della posizione di liquidità delle imprese italiane e come, in assenza di interventi di sostegno, lo shock si sarebbe amplificato attraverso i legami di input-output e il prosciugarsi del credito commerciale tra imprese.
Nel contributo viene sviluppato un quadro analitico di tipo contabile in cui si considera la posizione iniziale di liquidità delle imprese, l’evoluzione mensile dei flussi di cassa e un’equazione di accumulazione che descrive l’andamento della liquidità. Si utilizzano dati di bilancio per 650 mila imprese italiane, che rappresentano circa tre quarti del valore aggiunto del settore privato. Il profilo mensile dei ricavi è ottenuto da stime di crescita settoriale, mentre i costi sono stimati tramite misure di elasticità degli input ai ricavi. Partendo da una valutazione dello stock di liquidità pre-crisi e stimando l’andamento di ricavi e costi dopo l’imposizione delle chiusure produttive, si stima il momento in cui l’impresa diviene illiquida e si stima il relativo gap di liquidità.
Secondo le stime degli autori, quasi metà delle imprese italiane ha registrato una caduta di fatturato superiore al 20 per cento durante la prima ondata dell’epidemia e il gap di liquidità si è accumulato molto rapidamente, arrivando a quasi quattro punti percentuali di PIL. Nello studio si confrontano le stime sulla carenza di liquidità delle imprese con quelle sul grado di copertura (sia teorica che effettiva) fornito dalle misure di sostegno, ed in particolare dal Decreto Liquidità, con il quale si sono potenziate le garanzie pubbliche per la concessione di prestiti bancari.
La principale conclusione a cui giungono gli autori è che il grado di copertura offerto dal credito garantito sia stato completo e che la questione cruciale sia quella della tempestività nell’accordare il credito assistito da garanzie pubbliche. Viene quindi proposto uno schema in base al quale le imprese con un buon rating prima della pandemia possono ricevere credito con meccanismi semi-automatici, al contrario delle imprese con rating meno solidi, per le quali le analisi del merito di credito dovrebbero essere più approfondite.
In retrospettiva, i dati oggi disponibili mostrano che le garanzie pubbliche e la moratoria sui prestiti alle piccole e medie imprese (PMI) hanno fatto sì che il credito bancario alle imprese sia cresciuto di oltre l’8 per cento nel 2020, al contrario di quanto avvenne in precedenti recessioni: ad esempio, come ricorda la Banca d’Italia nella Relazione Annuale per il 2020, nel biennio 2012-2013 il credito alle imprese diminuì complessivamente del 7 per cento. Le garanzie dello Stato hanno sostenuto in particolare l’erogazione di credito a lungo termine, il che porta a ritenere improbabile un’inversione di segno nell’erogazione del credito nella fase di uscita dalla crisi. D’altro canto, a fine 2020 i debiti finanziari delle imprese sono saliti al 76,9 per cento del PIL, dal 68,5 per cento nell’anno precedente. Sebbene l’aumento sia dovuto in parte alla caduta del PIL, è ragionevole prevedere che uno dei lasciti della crisi sarà un maggior indebitamento delle imprese.
Com’è noto, le politiche di sostegno alle imprese attuate dai due Governi che si sono succeduti durante la pandemia non si sono limitate al mantenimento del credito all’economia. Le imprese sono anche state sostenute con trasferimenti a copertura di parte dei costi fissi, sospensioni di adempimenti fiscali e contributivi, e trasferimenti a fondo perduto (ristori). Nel solo 2020, includendo i fondi appostati a copertura delle garanzie sul credito, gli interventi per le imprese e la fiscalità sono stati pari a 56,1 miliardi di euro (3,4 per cento del PIL)1.
Un’ulteriore area di intervento che ha contribuito a contenere il peggioramento della posizione di liquidità delle imprese e il deterioramento del loro conto economico riguarda il sostegno al lavoro, per il quale nel 2020 sono stati complessivamente erogati 29,7 miliardi (1,8 per cento del PIL), soprattutto per finanziare l’estensione della Cassa Integrazione Guadagni (CIG) anche ai settori non assicurati. In aggiunta alla ‘CIG in deroga’ e ad una serie di strumenti di sostegno al reddito delle famiglie, il Governo ha anche introdotto il divieto di licenziamento per motivi economici per le imprese che hanno usufruito della CIG. L’insieme di queste misure ha fatto sì che la caduta dell’occupazione complessivamente registrata in Italia nel 2020 (2,1 per cento) sia stata assai inferiore alla contrazione delle ore lavorate (11,0 per cento).
La perdita di occupazione nel 2020 si è concentrata fra i lavoratori autonomi e i lavoratori dipendenti a tempo determinato, per i quali il divieto di licenziamento ha inciso solamente nell’eventualità di ricorso alla CIG in deroga. Questa osservazione solleva la questione di quale sarebbe stata la perdita di posti di lavoro in assenza del blocco dei licenziamenti. Nel periodo pre-crisi, in Italia il numero di licenziamenti nel settore privato non agricolo era pari a circa mezzo milione all’anno, a fronte di un totale di circa 15 milioni di lavoratori dipendenti. Tali licenziamenti erano più che compensati da assunzioni a tempo indeterminato e trasformazioni, che hanno oscillato tra 0,95 e 1,4 milioni.
Il saggio di Eliana Viviano incluso in questa sezione monografica parte dalla costatazione che nel 2020 i licenziamenti nel settore privato non agricolo sono stati di circa 200.000 unità inferiori agli anni precedenti. Per valutare l’impatto complessivo delle misure adottate dal Governo è tuttavia necessario stimare quale sarebbe stato il numero di licenziamenti in presenza di un crollo dell’attività economica della portata registrata nel 2020 e in assenza di misure di sostegno. A tale scopo, l’autrice utilizza un Linear probability model (LPM) su dati microeconomici, in cui la probabilità di licenziamento è funzione della caduta di fatturato registrata dall’impresa, delle sue condizioni patrimoniali e del fatto che i lavoratori siano in CIG già dall’anno precedente o entrino in tale posizione nell’anno in corso.
I risultati della stima mostrano una correlazione positiva fra licenziamenti e condizione di cassintegrato nell’anno precedente e negativa per l’anno in corso. Lo shock di fatturato è significativo e di segno atteso. In base alle stime ottenute, la Viviano stima che, in assenza delle politiche di sostegno attuate dal Governo, i licenziamenti nel 2020 avrebbero raggiunto 700 mila unità, un livello superiore di 400 mila unità a quello registrato2.
La crisi Covid-19 si è propagata all’Italia non solo tramite i contagi, ma anche attraverso il crollo delle esportazioni nei mesi di marzo e aprile 2020, solo parzialmente compensato dal recupero dei mesi successivi. Il contributo di Giglioli, Giovannetti, Marvasi e Vivoli si prefigge di stabilire se la partecipazione di un Paese a catene globali del valore (Global Value Chains, GVC) costituisca un elemento di amplificazione o mitigazione dello shock pandemico. La parte iniziale del lavoro, utilizzando dati settoriali di tipo input-output a livello globale, mostra come la partecipazione di un Paese alle GVC tenda a ridurre l’impatto economico dello shock. Inoltre, si qualifica questo risultato distinguendo tra Paesi in cui, all’interno delle GVC, le imprese sono principalmente fornitrici di input intermedi (occupando una posizione ‘forward’ nelle GVC) o acquirenti di tali input (downstream). Viene poi esaminato l’effetto differenziato dello shock a seconda del suo timing, distinguendo tra la prima e la seconda ondata della pandemia.
Le evidenze fornite dagli autori suggeriscono che i Paesi in posizione forward nelle GVC abbiano subìto effetti negativi maggiori rispetto a quelli che occupano una posizione downstream. Inoltre, i risultati suggeriscono che i Paesi con elevato grado di partecipazione alle GVC hanno sofferto di più in occasione della prima ondata della pandemia ma meno nella seconda, facendo registrare un rimbalzo più deciso di quello riscontrato in genere per i Paesi con minore grado di integrazione economica a livello internazionale.
Nella seconda parte della loro analisi, gli autori utilizzano delle indagini condotte dalla Banca Mondiale presso le imprese italiane riguardo, tra l’altro, alle perdite di fatturato e la riduzione degli approvvigionamenti a seguito dello shock Covid-19. I risultati ottenuti nell’analisi cross-country vengono sostanzialmente confermati da quella svolta su dati microeconomici per l’Italia. Il grado di proiezione internazionale di un’impresa, misurata sia in termini di partecipazione alle GVC, sia mediante le misure di incidenza del fatturato estero su quello complessivo, ha effetti sull’entità della riduzione delle vendite causata dalla pandemia. Maggiore è l’esposizione internazionale di un’impresa, maggiore risulta il suo grado di resilienza allo shock e ciò è particolarmente evidente in occasione della seconda ondata della pandemia.
Questo risultato è coerente con l’andamento complessivamente positivo del commercio internazionale di merci e della produzione manifatturiera che si è registrato a partire dal terzo trimestre del 2020, grazie al fatto che tutti i principali Paesi hanno adottato misure di controllo dell’epidemia più selettive in confronto alla fase iniziale di lockdown. Inoltre, un fattore che ha certamente influenzato gli andamenti delle diverse economie è la composizione settoriale del prodotto. Come evidenziato ad esempio da un recente paper della Commissione Europea (2021a), i settori produttivi a maggiore intensità di contatti sociali o più sensibili al clima di incertezza sono stati investiti più pesantemente dalla crisi. La rilevanza del turismo, ristorazione, intrattenimento e cultura ha sicuramente pesato sull’andamento relativo del PIL italiano, così come il contraccolpo subìto dall’industria del tessile, abbigliamento e calzature.
Pur in presenza di stringenti misure sanitarie per contrastare la terza ondata epidemica, il 2021 si è aperto con un lieve incremento del PIL nel primo trimestre, 0,1 per cento sul periodo precedente. La discesa dei contagi e l’accelerazione della campagna di vaccinazione fanno ben sperare per il prosieguo dell’anno. Il Governo ha attuato due ulteriori pacchetti di sostegno alle imprese, ai lavoratori e ai settori più impattati, per un importo complessivo equivalente al 4,1 per cento del PIL (gli interventi del 2020 sono stati pari al 6,5 per cento del PIL).
Alla spinta fornita da questi corposi sostegni e all’impostazione espansiva della Legge di Bilancio 2021, si assommeranno, su un orizzonte più lungo (2021-2026), gli effetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) di recente presentazione3. Il PNRR si avvarrà delle risorse europee del Next Generation EU (NGEU), in particolare lo Strumento per la Ripresa e la Resilienza (Recovery and Resilience Facility – RRF), nonché di fondi aggiuntivi nazionali.
Il contributo di Cossaro, Forni e Tomasini analizza il piano di rilancio varato a livello europeo con il NGEU e, in particolare, il PNRR italiano. Gli autori argomentano che le risorse del NGEU, benché di ammontare considerevole, avranno solamente effetti temporanei sulla crescita se non saranno accompagnati da incisivi interventi di riforma. A supporto di questa tesi, svolgono un’analisi quantitativa di due scenari alternativi utilizzando il modello econometrico trimestrale di Prometeia. Il primo scenario, denominato “status quo”, si caratterizza per la carenza di riforme strutturali, per un utilizzo parziale delle risorse volte a incrementare gli investimenti pubblici e la spesa per l’innovazione e la formazione, nonché per una perdita di competitività che porterebbe ad una maggiore penetrazione delle importazioni.
Nel secondo scenario considerato, gli autori ipotizzano che i fondi del NGEU vengano pienamente utilizzati e per importi crescenti nei sei anni previsti dal programma, che le riforme strutturali previste dal Piano vengano effettivamente varate e che il sistema produttivo mostri un’adeguata capacità di adattamento verso la transizione ecologica e digitale promossa dal PNRR. In questo scenario, la crescita media dell’economia italiana nei prossimi cinque anni sarebbe pari al 2,5 per cento. Il PIL nell’anno finale del Piano sarebbe più alto che nel primo scenario di circa il 3 per cento, stima solo lievemente inferiore a quella riportata dal Governo nel PNRR.
Prolungando le due simulazioni oltre il 2026, nello scenario “status quo”, il PIL avrebbe una dinamica debole e, nel 2030, risulterebbe maggiore rispetto al livello pre-pandemia di solo il 5 per cento, con un rapporto debito pubblico/PIL ancora al disopra del 150 per cento e un tasso di disoccupazione di oltre l’11 per cento. Viceversa, nello scenario di svolta, anche grazie alle riforme introdotte, il tasso di crescita del PIL nella fase finale dell’orizzonte temporale (che possiamo interpretare come il tasso di crescita potenziale) si assesterebbe intorno all’1,2 per cento e nel 2030 il rapporto debito/PIL e il tasso di disoccupazione ritornerebbero ai livelli precedenti la pandemia.
Il futuro dell’economia italiana nel prossimo decennio ruoterà ancora una volta intorno al binomio crescita-debito pubblico. È indubbio che le risorse del NGEU, che per l’Italia significano quasi 84 miliardi di euro di sovvenzioni oltre a 122,6 miliardi di prestiti, giocheranno un importante ruolo propulsivo sulla crescita se verranno ben utilizzati. Ma a fare davvero la differenza sarà l’effetto congiunto degli investimenti, delle riforme e delle innovazioni introdotte dal Piano.
Come si può anche evincere dal cronoprogramma concordato con la Commissione Europea, si tratta di uno sforzo pluriennale che toccherà tutti i principali nodi che hanno ostacolato la crescita economica del Paese, particolarmente nell’ultimo ventennio. Lo sforzo richiesto è rilevante e dovrà essere sostenuto nel tempo, ben oltre la durata dell’attuale Parlamento. Sui risultati conseguiti dall’Italia peseranno anche gli sviluppi internazionali, che non sono privi di rischi macroeconomici, finanziari e geopolitici – basti pensare alla recente ripresa dell’inflazione o alle tensioni in diverse aree critiche dello scacchiere mondiale.
A fronte dell’imperativo della crescita, per l’Italia il lascito della crisi sarà uno stock di debito pubblico salito a livelli mai sperimentati nella storia unitaria, 155,6 per cento in rapporto al PIL nel 2020 e probabilmente ancora più elevato alla fine di quest’anno – lo scenario programmatico del Documento di Economia e Finanza proietta un livello di 159,8 per cento. A ciò si aggiunge l’aumento delle contingent liabilities del settore pubblico: per via delle già menzionate garanzie dello Stato sui prestiti bancari introdotte durante la crisi, già a fine 2020 il totale delle garanzie pubbliche in essere è salito al 13 per cento del PIL, dal 4,8 per cento di fine 2019.
Il contributo di Ignazio Visco pubblicato in questo numero di Economia Italiana tratta principalmente del debito pensionistico e delle variabili che ne determinano la sostenibilità nel lungo periodo. Tuttavia, Visco affronta anche il tema del rientro post-crisi del debito pubblico, tracciando uno scenario di medio termine in cui un ritorno della crescita del PIL verso il ritmo medio registrato nel primo decennio di questo secolo (1,5 per cento), un tasso di inflazione prossimo al 2 per cento e un surplus primario pari all’1,5 per cento del PIL consentirebbero di riportare il rapporto debito/PIL al livello pre-pandemico nei prossimi dieci anni4.
Richiamando la Relazione Annuale della Banca d’Italia per il 2019, Visco riassume le condizioni per un ritorno della crescita media del PIL all’1,5 per cento come segue: il graduale riassorbimento della disoccupazione, una tendenza all’aumento del tasso di partecipazione al lavoro (segnatamente della componente giovanile e femminile), un aumento della produttività totale dei fattori e una ripresa del tasso di investimento che lo riporti al livello medio del decennio 1996-2007.
Come conseguire tali risultati? Nel PNRR il Governo stima che, nello scenario di piena attuazione degli investimenti e delle politiche di incentivazione previste dal Piano, la crescita potenziale possa salire dallo 0,6-0,8 stimato negli anni precedenti la crisi pandemica fino all’1,4 per cento nell’anno finale del Piano, il 2026. La continuazione di questa tendenza e la possibilità di ulteriori miglioramenti dipenderanno dal tasso di investimento che si riuscirà a mantenere anche negli anni successivi al completamento del Piano, nonché dall’efficacia delle riforme nel frattempo attuate. Le simulazioni riportate nel PNRR mostrano, infatti, che se le riforme della Pubblica amministrazione, degli appalti pubblici, della concorrenza e della giustizia produrranno significativi miglioramenti dell’efficienza, prevedibilità e trasparenza del ‘sistema Italia’, la crescita potenziale dell’economia potrà aumentare ulteriormente.
È da lungo tempo che stime di impatto delle riforme strutturali figurano nelle analisi sull’Italia da parte della Commissione Europea, dell’OCSE e del Fondo Monetario Internazionale, nonché nelle varie edizioni del Programma Nazionale di Riforma. Tuttavia, è la stessa Commissione Europea a rilevare che la risposta dell’Italia alle Raccomandazioni Specifiche al Paese in termini di azioni di riforma presenta numerosi gap e ha registrato una progressiva perdita di slancio negli ultimi anni5. L’opinione pubblica italiana sembra aver pienamente compreso l’opportunità che i fondi europei a supporto del PNRR rappresentano per la transizione ecologica e digitale, la formazione, la sanità e l’inclusione sociale, di genere e territoriale. Ma è meno scontato che vi sia un equivalente consenso nei confronti di riforme che, per essere efficaci, potrebbero richiedere sacrifici da parte di determinate categorie o gruppi di interesse. Analoghe considerazioni possono essere svolte riguardo alla graduale normalizzazione della politica di bilancio prevista per i prossimi anni.
La crisi pandemica ha sovrapposto nuovi fattori di cambiamento ad un quadro globale già in rapida evoluzione per via di fattori ambientali, tecnologici e politici. Alcuni settori duramente colpiti dalla pandemia, ad esempio il turismo e le attività artistiche e culturali, riprenderanno gradualmente vigore, soprattutto se sapranno valorizzare le innovazioni introdotte durante la crisi. Altri si avvantaggeranno della spinta derivante dall’aumento degli investimenti pubblici e dagli incentivi all’innovazione e all’efficientamento energetico. La digitalizzazione, la banda larga e il 5G sosterranno il ricorso al lavoro a distanza, il che potrebbe favorire l’Italia se le suddette riforme ne accrescessero l’attrattività come Paese in cui vivere e produrre.
Nella fase di uscita dalla crisi si profila dunque l’opportunità di rilanciare l’economia italiana. Per coglierla appieno, sarà necessario privilegiare il cambiamento anziché la difesa dell’esistente e riallineare gli incentivi all’offerta di lavoro, agli investimenti e alla creazione di imprese. Il passaggio dagli interventi emergenziali alle riforme richiederà tempismo e determinazione: è una sfida difficilissima, ma possibile.
1 Cfr. MEF (2021) Par V.1.
2 Nella Relazione Annuale per il 2020, la Banca d’Italia ha aggiornato questa stima a 440 mila unità. Va rilevato che l’impatto della crisi in assenza di interventi di sostegno avrebbe potuto essere ancora superiore, in quanto lo scenario macro utilizzato come baseline utilizza la previsione del PIL elaborata dalla Banca d’Italia a luglio 2020, che incorporava già l’impatto favorevole delle prime misure attuate dal Governo con i Decreti-legge Cura Italia, Liquidità e Rilancio.
3 Cfr. PCM (2021).
4 Il tema viene ripreso nelle Considerazioni Finali del Governatore in Banca d’Italia (2021), ove, alla luce dell’evoluzione più recente delle variabili chiave, si parla di un surplus primario poco sopra l’un per cento del PIL.
5 Si veda da ultimo European Commission (2021b).