SOLDI E CONDIZIONI DEGLI AIUTI USA DI SETT'ANNI FA
L'insopprimibile voglia di un Piano

Il Recovery Program di Marshall è la soluzione ideale anche per oggi? Il confronto sulle cifre non lo premia. Ma la sua storia offre qualche insegnamento

Paola Pilati

Si invoca, si promette, si rievoca come una panacea: il piano Marshall di questi tempi ha ritrovato un’improvvisa notorietà. È diventato il benchmark assoluto di tutti gli interventi di sostegno e rilancio economico, il più riuscito e generoso. Quello con cui tutti potremmo ritrovare il benessere. Quello ci verrebbe, altro che “condizionalità” del Mes! 

A parte le considerazioni di ordine politico ben spiegate in questo sito nell’articolo di Alessandro Albanese Ginammi (https://mirror.fchub.it/la-lezione-degli-stati-uniti-damerica-agli-stati-disuniti-deuropa/), c’è una certa difficoltà a superare gli slogan e a riprendere in mano i dati, quelli storici. Non per minimizzare l’operazione grandiosa che i vincitori decisero di attuare in Europa, includendo anche i paesi vinti, l’Italia e la Germania. Operazione che consentì al nostro paese di trovare uno slancio che ancora oggi si definisce “miracoloso”. Nessun revisionismo, dunque, solo i dati, per metterli a confronto con il quadro di oggi e rileggerli con i parametri attuali.

Li ha rimessi in fila l’Osservatorio dei conti pubblici (https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-abbiamo-bisogno-di-un-piano-marshall) guidato da Carlo Cottarelli. Conviene qui ripercorrerli. Il Piano Marshall, o per meglio dire lo European Recovery Program, partì nel 1948 e si concluse nel 1952. Dai 5 miliardi di dollari stanziati inizialmente, arrivò alla sua conclusione ad avere erogato aiuti per 14 miliardi di dollari, pari al 5,4 per cento del Pil degli Stati Uniti. 

Di questa somma, all’Italia arrivarono 1,5 miliardi, pari al 9,2 per cento del Pil del periodo complessivo del Piano, cioè 4 anni. Regali? Sì, in gran parte furono donazioni, ma anche prestiti a lungo termine (trenta/quarant’anni) con un tasso di interesse basso (il 2,5 per cento). E le condizionalità c’erano o non c’erano? C’erano, eccome. A parte l’impegno di non far andare i comunisti al governo, e di garantire agli Usa un mercato a cui vedere la loro way of life, c’era quello di presentare un piano di utilizzo degli aiuti, che doveva passare l’approvazione dell’Oece, l’organizzazione internazionale che oggi si è trasformata in Ocse, che poi veniva mandato a Washington.

Negli Usa ci si occupava di reperire gli “aiuti”, che in gran parte erano materie prime, semilavorati, tecnologie, che l’Europa post-bellica non aveva. Gli aiuti erano quindi anche un modo per finanziare le esportazioni americane, ma erano certamente risorse vitali per la ricostruzione. Lo Stato che le riceveva le rivendeva agli imprenditori, e in questo modo alimentava un fondo di risorse ad uso nazionale. Come funzionava?

In una intervista al “Tempo” del 16 aprile del 1948, (http://www.luigieinaudi.it/percorsi-di-lettura/lib/percorso-6/piano-il-marshall-indispensabile-al-risanamento-delleconomia-italiana.html), alla vigilia del grande successo elettorale della Democrazia Cristiana, Luigi Einaudi spiegava che quell’anno gli Usa avrebbero dato all’Italia il corrispettivo di 400 miliardi di lire come dono. Somma pari all’attivo che la bilancia dei pagamenti nazionale registrava. Sarebbero serviti, spiegava, per pagare frumento, carbone, e altre materie prime che l’Italia non poteva comprare con le sue esportazioni, perché queste non c’erano più. Senza il dono americano ci sarebbero state la fame e la disoccupazione. 

Ma il Piano Marshall era una medaglia “a due facce”, disse Einaudi, e l’altra faccia era l’uso imposto al Tesoro italiano del ricavato della vendita dei prodotti ricevuti in dono, di cui gli Usa chiedono il pagamento (al cambio di 575 lire per dollaro). «Gli Usa pretendono che il Tesoro italiano, ricevendo 400 miliardi di lire di frumento, carbone, combustibili e materie prime, ne versi l’intero ammontare – e intero vuol dire il prezzo completo che si dovrebbe pagare per acquistare queste materie negli Stati Uniti o altrove – in un “fondo-lire” presso la Banca d’Italia. Che cioè il Tesoro paghi a se stesso, cosicché l’Italia misuri interamente la portata di questo dono e possa attraverso il Parlamento e gli altri organi incaricati di deliberare in materia, decidere il migliore impiego del denaro accumulato». Qualche condizione all’uso di questa somma? Una sola: «purché non la usino per tappare i buchi del bilancio corrente dello Stato».

In realtà parte delle risorse del fondo-lire all’inizio vennero devoluti dalla Banca d’Italia al Tesoro per tamponare davvero il deficit di bilancio. E la reazione americana non si fece attendere, tanto che nel 1948 l’amministratore della missione in Italia, Paul Hoffman, presentò una relazione negativa che impose al governo italiano un chiarimento su come venivano gestiti gli aiuti.

“Il Programma a lunga scadenza presentato dall’Italia”, scriveva Hoffman, “è una enunciazione molto approssimativa di punti di vista, piuttosto che un programma deciso di obiettivi e di mezzi per raggiungerli. Esso consiste principalmente in due tipi di materiali che non sono stati ancora integrati in un piano operativo: 1) il risultato di alcune indagini private che contengono previsioni statistiche sulle possibili linee di sviluppo futuro dell’Italia, e 2) una serie di piani di investimento formulati dai diversi ministeri economici… È da rilevare la mancanza assoluta di ogni considerazione circa gli strumenti amministrativi per il raggiungimento degli obiettivi”. Una critica severa, a cui si aggiungeva l’invito a incoraggiare l’iniziativa privata, e ad avviare un piano nazionale degli investimenti, per il quale Hoffman avrebbe voluto una Autorità di piano – oggi si direbbe un commissario – indipendente dai ministeri.

Dopo la missione di una delegazione italiana a Washington per dare spiegazioni, la cose cominciarono a cambiare, e i fondi iniziarono ad essere usati per piani di ammodernamento nelle ferrovie, nell’industria, nei lavori pubblici. E nel Mezzogiorno, al quale fino ad allora non si era prestata attenzione.

Anche se le critiche di Hoffman di ieri accendono perplessità simili rispetto alla capacità, oggi, di mettere in piedi piani efficienti di spesa e di realizzarli in tempi brevi, quello che la storia ci suggerisce è che nulla è senza una contropartita. Ma nel nostro caso, anche con alcune “condizionalità”, si potrebbe trattare di una operazione win-win, e cioè che gli aiuti che invochiamo oggi dall’Europa ci diano l’occasione, e in qualche misura ci obblighino, a realizzare gli ammodernamenti che il nostro sistema amministrativo-produttivo non riesce a fare spontaneamente.

Un’occasione che solo un Piano Marshall redivivo potebbe consentirci? Attenzione: come ricorda l’Osservatorio CPI, “la BCE solo quest’anno presterà all’Italia, attraverso l’acquisto di titoli di Stato e di titoli privati con i vari programmi di quantitative easing, almeno 240 miliardi (il 14 per cento del Pil italiano). In un singolo anno l’erogazione sarà quindi ben superiore agli importi, cumulati su quattro anni, forniti dal Piano Marshall al nostro paese (9,2 per cento del Pil medio nel periodo di erogazione). … l’importo indicato per gli acquisti si riferisce solo al 2020, quando invece i programmi di acquisti di titoli italiani proseguiranno per importi probabilmente molto elevati anche nel 2021”. Insomma, la sola Bce straccia il record del leggendario Piano Marshall. Poi c’è il resto che ancora deve essere deciso, e si spera accettato.