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L’indipendenza di giudizio dell’amministratore di banca: un concetto sfuggente (*)

Sta nascendo anche da noi una categoria di professionisti specializzati nell’indipendenza, soprattutto nel settore bancario. Ma come deve muoversi l’amministratore? E come deve muoversi l’organo chiamato a valutare l’indipendenza di giudizio? Ecco il percorso da seguire tra norme, di legge formale o soft law, domestiche e sovranazionali

Raffaele Lener
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1.  Non è agevole disegnare il corretto standard di “indipendenza” del buon amministratore bancario.

Lo stratificarsi di norme, di legge formale o soft law, domestiche e sovranazionali, crea spesso un effetto confusorio e spinge a un ossequio formale che rischia di essere inutile, e a volte dannoso.

Le norme di rango primario dettano spesso regole vuote, troppo ampie, tautologiche e inconcludenti; quelle di soft law, sparse in codici di autodisciplina e raccomandazioni delle autorità, sono invero migliori, quando riescono a “pescare” dall’esperienza pratica le ipotesi più ricorrenti di conflitto, in qualche modo codificandole. Il rischio, per queste ultime, è semmai la disapplicazione, ove l’adesione a codici avvenga su base volontaria o comunque consenta il “comply or explain”.

Non è dubbio che il concetto di indipendenza non esprima una qualità assoluta, ma il tipo di relazione che l’interessato ha, o può avere, con qualcosa o qualcuno; sì che le norme devono essere dotate di flessibilità per cercare di cogliere le specifiche situazioni di “potenziale disagio” che possono privare l’amministratore della necessaria autonomia di giudizio e della, altrettanto necessaria, capacità di esprimere una valutazione critica. Tuttavia, norme troppo flessibili o sempre derogabili, sia pur motivando, rischiano di non essere applicate. Si deve per ciò cercare una composizione di norme “rigide” e “soffici”.

2. Come noto, la disciplina dettata per gli amministratori indipendenti nasce quale mera estensione dei requisiti posti per i sindaci, in un inseguimento continuo dei sistemi di common law, ove la presenza di outside directors nei consigli di amministrazione delle imprese operanti nel settore finanziario costituisce una sorta di punto di sintesi fra gli interessi dei soci, degli amministratori esecutivi e degli altri potenziali stakeholders, quanto meno dall’Investment Company Act del 1940.

Non può non porsi il dubbio, al riguardo, sull’utilità della presenza di amministratori di cui si deve faticosamente accertare l’indipendenza in un sistema, quale il nostro, che tradizionalmente contempla sindaci necessariamente indipendenti, con poteri assai più pervasivi di quelli che hanno gli amministratori senza deleghe. A mio avviso, come già mi era capitato di rilevare [su AGE, 2016, p. 35 ss.], al fondo gli amministratori indipendenti non aggiungono nulla, o quasi nulla, ai sindaci e la preferenza che oggi si manifesta per il sistema monistico in relazione alle società quotate o alle società finanziarie sembra possa giustificarsi solo con la maggiore “intelligibilità” del sistema per investitori stranieri soliti operare secondo modelli di common law.

Le asimmetrie informative non sono certo rimosse per il solo fatto che il “non esecutivo” è chiamato amministratore e non sindaco. Il rischio di “cattura” da parte degli esecutivi è addirittura maggiore, per la “capacità persuasiva” di questi, rafforzata dal peso che essi hanno nella determinazione del compenso degli altri.

Va detto che sta nascendo anche da noi una categoria di professionisti specializzati nell’indipendenza, soprattutto nel settore bancario; e questo è un bene, una volta scelto il modello “all’americana”, poiché garantisce maggiore serietà e preparazione. Ma si tenga presente che nella letteratura nordamericana si è diffusa una lettura negativa, che appunto nega la correlazione fra amministratori indipendenti e riduzione del rischio di condotte opportunistiche.

L’amministratore bancario indipendente deve, dunque, in primis cercare di rendersi utile e non limitarsi a un ruolo formale e passivo. Ma non è facile.

Tutto ciò in un sistema che progressivamente comprime gli spazi di autonomia degli amministratori della banca, ampliando l’area di intervento delle autorità di vigilanza nella governance e dando vita a quello che è stato chiamato bank government, una sorta di “governo pubblico della banca” in nome della sana e prudente gestione.

3.  Nel DM 23 novembre 2020, n. 169, troviamo regolati separatamente i requisiti di idoneità per i componenti dell’organo amministrativo di una banca (art. 13) e quelli relativi ai membri degli organi di controllo (art. 14). A queste norme si aggiunge una sorta di “sintesi” dei requisiti, all’art. 15, ove si introduce il concetto di indipendenza di giudizio.

Semplificando, l’art. 13 del DM, nel regolare i “requisiti di indipendenza di alcuni consiglieri di amministrazione”, stabilisce che il consigliere di amministrazione indipendente è sostanzialmente l’esponente sul cui capo non sussiste nessuna delle specifiche situazioni dalle quali è possibile dedurre la sua “non-indipendenza”.

L’area della nozione di indipendenza, dunque, è negativa: l’indipendente è, in prima battuta, un soggetto la cui “non-dipendenza” si dimostra in base all’insussistenza delle specifiche situazioni (di diritto o di fatto, personali o professionali) elencate dall’art. 13.

In realtà all’amministratore della banca è già richiesta l’indipendenza ai sensi dell’art. 26, comma 2, TUB. Tuttavia, nel DM 169 il requisito assume differenti declinazioni: da un lato c’è l’indipendenza “oggettiva” dell’esponente in veste di membro indipendente; dall’altro il suo “agire indipendente”, che prescinde dallo status di “indipendente” [being independent vs. independent in mind].

4. Il requisito di indipendenza, ai sensi dell’art. 13, comma 1, del DM, trova applicazione necessaria solo nei confronti degli esponenti che, per legge o regolamento, debbano sedere nell’organo amministrativo in veste, appunto, di indipendenti, non dunque con riguardo a tutti i componenti del consiglio.

Solo per i sindaci, infatti, è prevista (dall’art. 14 del DM) una sorta di radicale incompatibilità ad assumere la carica, nel caso sussista una delle situazioni di “non-indipendenza”.

Affatto diversa è l’indipendenza di giudizio, che, come si accennava, costituisce requisito dell’azione dell’esponente, quale ulteriore declinazione del principio di sana e prudente gestione.

Ciò si nota in particolare coordinando la lettura dell’art. 15 del DM con gli Orientamenti Congiunti dell’EBA e dell’ESMA n. ABE/GL/2017/12 del 21 marzo 2018, i quali definiscono l’indipendenza di giudizio come un «requisito di idoneità» dell’esponente che consente a questi, per dir così, di dimostrare la sua capacità “di agire con onestà, integrità e indipendenza di giudizio per valutare e contestare efficacemente le decisioni dell’organo di gestione con funzione di gestione e le altre decisioni di gestione pertinenti, se del caso, e per sorvegliare e monitorare efficacemente le procedure decisionali”.

Gli Orientamenti precisano ulteriormente che “agire con ’indipendenza di giudizio’ è un modello di condotta, mostrato in particolare durante le discussioni e le procedure decisionali nell’ambito dell’organo di gestione, ed è richiesto a ogni membro dell’organo di gestione, indipendentemente dal fatto che il membro è ritenuto ’indipendente’ o meno [secondo i criteri previsti per gli indipendenti dai medesimi Orientamenti]. Tutti i membri dell’organo di gestione dovrebbero impegnarsi attivamente nello svolgere i propri compiti e dovrebbero essere in grado di adottare decisioni e giudizi ragionevoli, oggettivi e indipendenti nell’esercizio delle proprie funzioni e responsabilità”.

Bisogna, dunque, tener distinta l’indipendenza di giudizio, quale principio dell’azione, dall’essere indipendenti poiché “il fatto che un membro è considerato ’indipendente’ non significa che il membro dell’organo di gestione dovrebbe essere automaticamente considerato ’indipendente di giudizio’, giacché il membro potrebbe non disporre delle competenze comportamentali richieste”.

5. Ma, concretamente, come deve muoversi l’amministratore? E come deve muoversi l’organo chiamato a valutare l’indipendenza di giudizio?

Dalle indicazioni delle autorità comunitarie possiamo solo trarre che all’esponente bancario è richiesta, prima di tutto, disponibilità di tempo e competenza, con riferimento all’attività della banca e al funzionamento dell’organo amministrativo. Ciò consentirà al buon amministratore di “essere in grado di porre domande” (serie) ai membri dell’organo di gestione (cfr. Orientamenti).

Al banchiere è richiesta anche una sorta di immateriale e impalpabile indipendenza di spirito dalla direttiva CRD-IV (art. 91), che servirebbe a permettergli di “valutare e contestare efficacemente le decisioni avanzate dai membri dell’organo di gestione” (così, ancora, gli Orientamenti). Deve avere, in particolare, coraggio, convinzione e forza d’animo (Orientamenti), sì da poter anche “resistere alla mentalità di gruppo”. Qui il regolatore vuole evitare che gli amministratori siano passivi di fronte agli esecutivi, per non favorire quello che è stato chiamato “effetto gregge” [cfr. Presti].

Si tratta, all’evidenza, di formule molto late, che sembrano comportare anche una analisi psicologica e comportamentale, non agevole da eseguire, in mancanza di una prassi consolidata.

Non appare neppure in principio agevole tipizzare tali comportamenti “virtuosi”, come si è fatto per l’indipendenza “oggettiva”, anche se le prime indicazioni che si possono derivare dal § 84 degli Orientamenti fanno immaginare che, col tempo, si arriverà anche qui a identificare un quadro di standard comportamentali, quanto meno di massima.

Dal punto di vista pratico gli amministratori, verisimilmente, saranno portati sempre di più a motivare le proprie decisioni, chiedendo una verbalizzazione analitica delle riunioni consiliari, che consenta di dimostrare la loro autonomia di giudizio e la loro capacità dialettica. Ma va, ovviamente, stigmatizzato il comportamento, che non raramente è dato ravvisare nella prassi, di sistematico voto contrario nelle riunioni consiliari, perché il semplice “no” non motivato e, direi, non preceduto da un reale sforzo dialettico per convincere i consiglieri esecutivi, non è sufficiente a dimostrare la richiesta indipendenza di giudizio, che non è un valore in sé, ma può diventarlo se utile alla sana gestione della banca.

In conclusione, l’indipendenza “oggettiva” e il requisito “soggettivo-comportamentale” della indipendenza di giudizio sono tra loro, possiamo dire, indipendenti, in quanto il primo requisito riguarda l’oggettiva condizione degli interessati, mentre l’indipendenza di giudizio trascende le (anche se non prescinde dalle) condizioni “oggettive” dell’esponente, giacché concerne una ragionevole previsione sul suo comportamento nell’esercizio delle proprie funzioni.

(*) Il presente lavoro costituisce parte di un paper in corso di pubblicazione su AGE – Analisi giuridica dell’economia, n. 2/2022.