Fed&Bce
L'indipendenza dei banchieri centrali
Paola Pilati

Uno dei temi più caldi sul fronte della politica monetaria oggi è quello dell’indipendenza dei governatori delle banche centrali. Mario Draghi e Jay Powell non sono né i primi né gli unici a dover subire attacchi dalla politica, visto che è da un po’ di tempo che sulle poltrone dei governatori, una volta avvolte da un’aurea di sacralità, si scaricano veleni.

È successo a Janet Yellen, che un Trump in campagna elettorale ha bersagliato ora sul dollaro troppo alto ora sui tassi troppo bassi, stessa accusa che si è beccato il capo della banca centrale della regina Mark Carney in Uk, e anche il giapponese Haruhiko Kuroda, per non aver sconfitto l’inflazione. Per non parlare di quello che sta accadendo in India proprio in queste settimane,dove il governatore Urjit Patel è arrivato a minacciare le dimissioni di fronte alle pressioni del governo di potergli dettare interventi di “pubblico interesse”.

Intendiamoci, nessuno è al di sopra delle critiche. Ma forse ci si deve chiedere se quello che sta accadendo ora sul fronte della Fed e della Bce, le banche centrali più strategiche della comunità economica, non sia il segnale di qualcose che va oltre il puro esercizio di libera critica.

“Al banchiere centrale tocca portare via i cocktail quando la festa diventa troppo allegra”, era una volta la sintesi del mestiere: cioè manovrare i tassi (all’insù per calmare le acque, in giù per rendere l’atmosfera più effervescente). Poi, è venuta la stagione dei tassi a zero. Una lunga stagione, in cui il mestiere del banchiere centrale è diventato più vicino a quello dello stregone, che deve dominare con nuovi strumenti forze sconosciute. Ed ecco introdurre nella cassetta del banchiere centrale nuovi attrezzi, come il Qe. La conseguenza è stata un fiume di liquidità che ha innervato il corpo catatonico dell’economia, lo ha rimesso in piedi, e in grado di camminare con le sue gambe anche oltre i programmi eccezionali di acquisto di bond. Lo si è visto con la ripresa negli Usa, e lo si sta vivendo anche in Europa, dove gli interventi di acquisto dei bond si vanno riducendo.

Ma è stato proprio lo sconfinamento del banchiere centrale in un terreno che prima era solo della politica, quello che dava ai governi l’uso della leva della spesa per rianimare la ripresa, che ha cambiato prospettiva e rapporti, istillando nei governi la sensazione di condividere le stesse regole, e quindi di avere i banchieri centrali come controparti politiche. O antagonisti, se della politica non condividono gli obiettivi.

Negli ultimi anni i giudizi sulla trasformazione dei banchieri centrali sono stati divergenti. Se molti celebrano la prontezza dei QE, altri additano la colpa di non avere visto in tempo la crisi, altri ancora di aver pensato a salvare le banche a spese dei risparmiatori.

Di fatto, dopo vent’anni circa di indipendenza, oggi il neo nominato Powell viene insultato da Trump come “loco”, pazzo o scemo, per aver avviato il rialzo dei tassi, e Draghi, che si avvia alla fine del suo mandato, viene preso di mira dal partito dei Cinque stelle per non volere sostenere il debito pubblico italiano, come se la poltrona di Francoforte fosse per un italiano allo stesso rango di una missione diplomatica.

Sia Powell che Draghi oggi fanno orecchie da mercante. Il prezzo della loro indipendenza, ha detto una volta Alan Blinder, economista a Princeton, è quello di ascoltare mercati e politici come si ascolta la radio, non come si ascolta la mamma. Ma oggi questa radio trasmette a un volume troppo alto e imperioso per non sospettare che politici e mercati vogliano suonare la fine della ricreazione, proprio come farebbe la mamma.