Le valute digitali stanno crescendo rapidamente, proponendo nuove opportunità ma anche rischi non trascurabili. In questo quadro, garantire un’autonomia europea è stata la motivazione che ha spinto a plasmare un'opzione di pagamento pubblica, capace di soddisfare la domanda di strumenti digitali di pagamento sicuri, ma preservando il ruolo della moneta di banca centrale. È l'euro digitale
Il mutamento della leadership negli Stati Uniti ha trasmesso al comparto delle criptoattività un impulso importante, irrobustendo la già intensa crescita del 2024. Attualmente il valore di mercato delle criptoattività si attesta a circa $ 3,9 trilioni; a marzo era a $2,5 trilioni ma nei primi giorni di ottobre è arrivato a sfiorare i $ 4,4 trilioni. Per il 90% circa si tratta di criptoattività non garantite da attività sottostanti (unbacked crypto-assets), con la quota del Bitcoin intorno al 50%.
Le criptoattività prive di un sottostante sono (o dovrebbero essere) sorvegliate speciali dalle autorità monetarie essendo altamente volatili e scambiate prevalentemente in contesti non regolamentati e poco trasparenti. Il loro appeal speculativo sta attraendo in misura crescente clientela retail, operatori finanziari, società non finanziarie. L’interconnessione tra mondo delle criptoattività e sistema economico-finanziario prospetta seri rischi che devono essere costantemente monitorati.
Questa preoccupazione non è condivisa da tutti. Tra i primi atti del presidente Trump c’è stata l’inclusione di Bitcoin e altri assets digitali nelle riserve strategiche detenute dall’amministrazione americana, una decisione che dà sostanza alla promessa elettorale di fare degli Stati Uniti “the crypto capital of the planet”.
Nell’ambito delle criptoattività un posto particolare è occupato dalle stablecoins, attività digitali il cui valore è ancorato alle valute tradizionali per la presenza di riserve di elevata qualità (cash e titoli pubblici) in quella valuta.
Il loro ammontare è ancora limitato: capitalizzano circa $300 mld, il 7-9% di tutte le criptoattività. La loro crescita è però esplosiva (+85% rispetto allo scorso anno), un trend previsto durare, tanto che si pronostica che il loro ammontare possa arrivare a $4 trilioni entro il 2030 (recente rapporto di Citibank). Oltre il 90% delle stablecoins è legata al dollaro statunitense; quelle legate all’euro sono per ora trascurabili (appena $600 mln circa).
Ridotto ai suoi aspetti essenziali, il funzionamento delle stablecoins si può descrivere così: il loro acquisto viene pagato con valute tradizionali che gli emittenti in parte conservano come contante e in parte investono in titoli pubblici (dai quali ricavano un rendimento). Una stablecoin mantiene una valutazione stabile perché eventuali richieste di riconversione nella valuta di riferimento possono essere onorate attingendo alla riserva dell’emittente. Un rischio di controparte comunque esiste, come dimostrano alcuni importanti fallimenti (ad esempio Terra USD). Con le stablecoins si possono effettuare pagamenti o ottenere altre criptovalute.
Affinché la diffusione delle criptoattività non dia origine a fenomeni di instabilità per l’intero sistema è necessaria l’adozione di un regolamento che regoli in modo preciso il comportamento degli emittenti. Per ora ogni giurisdizione procede in modo autonomo: in Europa è stato messo a punto il MiCAR (Markets in Crypto-Assets Regulation), applicabile nella sua interezza dalla fine del 2024; negli Stati Uniti il regolamento in materia è contenuto nel GENIUS Act (Guiding and Establishing National Innovation for U.S. Stablecoins Act), approvato nel luglio scorso.
L’auspicabile approccio normativo coordinato a livello globale non si è per ora realizzato perché diversa è la considerazione delle criptoattività e delle valute digitali. Tra GENIUS Act e MiCAR ci sono in effetti profonde differenze. Il GENIUS Act regolamenta in modo significativo le stablecoins. Si affida largamente al settore privato limitando (light touch) lo spazio d’intervento del soggetto pubblico. Quasi contemporaneamente al varo di questa normativa è stato ordinato (giugno 2025) alle banche del sistema federale di congelare ogni progetto di dollaro digitale. Sfruttando la posizione dominante delle grandi aziende tecnologiche nel commercio online e nei social media, s’intende fare delle stablecoins in dollari lo strumento per rafforzare il ruolo della valuta americana nel circuito finanziario globale.
Il MiCAR, da parte sua, ha un campo d’applicazione più vasto delle stablecoins arrivando a toccare anche altre tipologie di criptoattività. Le sue priorità sono soprattutto la protezione degli investitori e la stabilità del sistema finanziario e monetario europeo. È responsabilità nazionale verificare che gli operatori si attengano a specifiche linee guida (in Italia compito affidato a Consob e Banca d’Italia).
Molto plausibile appare il rischio che le stablecoins possano portare ad un ridimensionamento dello spazio dell’euro: nell’immediato, perché quelle emesse fanno riferimento quasi esclusivamente al dollaro; in prospettiva, perché l’ipotesi che possa avviarsi un trend di emissioni di valute digitali legate all’euro si scontra con la mancanza di un mercato di titoli pubblici europei con ampiezza e liquidità paragonabili a quello statunitense.
Questa marginalità ha conseguenze molteplici: ad esempio, se fino a ieri gli operatori di paesi caratterizzati da elevata inflazione o fragilità nell’assetto economico e politico potevano preservare le proprie disponibilità convertendole in dollari e/o in euro, in un futuro di valute digitali quella del dollaro potrebbe rimanere di fatto l’unica strada percorribile.
Se la diffusione delle valute digitali riferite al dollaro soffocasse lo sviluppo di quelle legate all’euro, l’Europa vedrebbe indebolita l’autonomia delle sue scelte di politica monetaria. Di fronte a questo rischio si possono predisporre barriere normative difensive: nella MiCAR, in effetti, è previsto che l’emissione di stablecoins non denominate in euro possa essere limitata dalla Banca centrale europea, ove quest’ultima ravvisi rischi significativi per la sovranità monetaria e la trasmissione della politica monetaria. Per scongiurare questa minaccia non si può però fare affidamento solo o soprattutto a divieti e/o vincoli normativi.
Sul tappeto ci sono peraltro anche altri problemi che è giunto il momento di affrontare con convinzione, a cominciare da quello del circuito dei pagamenti. Gli eventi di questi ultimi anni hanno reso evidente l’urgenza di tutelare l’autonomia europea in settori come difesa ed energia. Altrettanto urgente è assicurare l’autonomia nel campo dei pagamenti, parte della quotidianità al pari di elettricità, acqua potabile, etc.
Secondo i dati della BCE, tra il 2016 e il 2024 la quota di pagamenti in contante nei punti vendita fisici è scesa in Europa a ridosso del 50% (in Italia anche al di sotto). Nell’area euro solo in 7 paesi esiste un’opzione di pagamento domestica per gli acquisti online (l’Italia è tra questi) mentre negli altri 13 paesi i pagamenti nei negozi avvengono esclusivamente tramite circuiti internazionali.
Nell’e-commerce, dove il contante non ha spazio, si usano soprattutto sistemi non europei come PayPal, Visa e Mastercard, con una elevatissima quota di mercato di queste ultime due. Le regole di funzionamento di questi circuiti penalizzano i piccoli esercenti che in Europa pagano commissioni anche 3-4 volte superiori rispetto alle grandi aziende. Ancora più critica diventerebbe la situazione se le grandi piattaforme tecnologiche (Amazon, Apple, Google, Meta, X) trovassero il modo di inserirsi nella partita.
La volontà di garantire un’autonomia europea è stata la motivazione che ha spinto a plasmare un sistema che si muova con dinamiche diverse, un’opzione di pagamento pubblica in linea con la trasformazione tecnologica in atto, capace di soddisfare la domanda di strumenti digitali di pagamento sicuri, efficienti e accessibili, tutelando la privacy, preservando il ruolo della moneta di banca centrale.
L’euro digitale è il perno di questo progetto. In un contesto che si vuole diversificato e competitivo l’obiettivo è garantire che la moneta di banca centrale – non una criptovaluta privata – rimanga sempre un’opzione, tanto per i pagamenti fisici che per quelli digitali.
Alla Bce è stato affidato il compito di costruire la necessaria infrastruttura tecnologica. Partito nell’ottobre 2020 l’impegnativo progetto è in fase avanzata, con la previsione di una prima sperimentazione su scala ridotta nel 2027 e la prima emissione dell’euro digitale nel 2029.
Questa progressione è condizionata dalla messa a punto della relativa normativa entro il 2026, un percorso legislativo che non si prospetta facile considerato che le forze conservatrici e sovraniste (tendenzialmente contrarie) hanno possibilità di combinarsi con istanze di altro genere. Lo stesso relatore al Parlamento europeo (un eurodeputato spagnolo del PPE) non è notoriamente un fan dell’euro digitale. Difficile prevedere come e quanto l’accordo politico finale condizionerà la definizione dei punti qualificanti del progetto (ad esempio la dotazione personale di euro digitale).
Rispetto a pochi mesi fa è cresciuta la percezione che queste novità possono determinare conseguenze profonde per il sistema economico nazionale, continentale e globale. Banche, istituzioni finanziarie, operatori del circuito dei pagamenti, istituzioni monetarie ne seguono lo sviluppo con il timore riservato alle grandi novità ma anche con interesse per le opportunità che potrebbe aprire.