Il Principe
Legge elettorale/ Se la quota maggioritaria ha un effetto proporzionale
Leonardo Morlino
MORLINO

Ormai, lo sappiamo, fra qualche mese dobbiamo decidere se votare e nel caso per chi. Ma a questo scopo è bene capire come funziona effettivamente la legge elettorale che tradurrà le nostre preferenze in seggi. Finora, infatti, la legge non sembra sia stata ben spiegata nei suoi effetti. La domanda essenziale é: alla fine abbiamo una legge con effetti proporzionali ovvero un sistema con più o meno forti spinte maggioritarie?

Partiamo da due semplici elementi che suggeriscono la tendenza base del sistema. Sia alla Camera che al Senato quasi due terzi dei seggi saranno attribuiti con un criterio proporzionale. Al tempo stesso però una soglia minima di voti necessaria per accedere al riparto dei seggi (3%) evita i micro-partiti. Ma i voti delle liste sopra l’1% vengo anche conteggiati nei voti complessivi della coalizione.

Queste precisazioni non bastano. Infatti, specie in presenza di forze politiche con potenziale simile forza elettorale (Movimento 5 Stelle, PD, Alleanza di destra), è decisivo capire che cosa succede al restante terzo circa dei seggi attribuiti attraverso i collegi uninominali (232 seggi su 630 alla camera e 116 su 315 al senato).

A questo fine non bisogna guardare solo alle regole elettorali, ma anche alla probabile distribuzione del voto. Perché? Le stesse regole possono dare risultati molto diversi in presenza di distribuzioni diverse del voto per collegio elettorale. Per capire meglio prendiamo, ad esempio, il più tradizionale sistema con collegi uninominali, quello inglese, in cui il seggio é attribuito al candidato che ottiene la maggioranza relativa dei voti. Questo sistema ha un impatto maggioritario e una forte spinta in senso bipartitico se la distribuzione del voto nei diversi collegi é uniforme. Poi, ovviamente, sulla base del numero dei collegi vinti si forma una maggioranza o un’altra diversa. Rimanendo sul caso inglese, poiché tradizionalmente nella maggior parte del paese il voto é stato abbastanza regolarmente distribuito, il risultato è stato prevalentemente bipartitico. Ma nell’Irlanda del nord, che é invece caratterizzata dalla concentrazione dei voti per ciascun collegio di partiti diversi, lo stesso sistema ha mandato a Westminster i rappresentanti di diversi partiti, cioè ha un effetto frammentante che va in direzione opposta verso il multipartitismo. I risultati delle più recenti elezioni inglese hanno fatto intravedere l’emergere di questa dinamica anche nel resto del paese. Dunque – vale ribadirlo – la stessa regola se è applicata in presenza di una distribuzione regolare del voto tra i diversi collegi uninominali ha un effetto prevalentemente bipartitico. Se invece è applicata in presenza di collegi con voti diversificati e territorialmente concentrati, allora ha un effetto frammentante, cioè spinge in senso multipartitico con risultati non diversi da un proporzionale.

Veniamo all’Italia e, per semplicità, chiediamoci che sarebbe successo se fosse stata applicata negli anni 80 la legge maggioritaria inglese. Poiché in quegli anni vi era una concentrazione del voto del PCI in alcune regioni del centro in quelle regioni sarebbero stati attribuiti quasi tutti i seggi ai comunisti; vi era, poi, una concentrazione del voto democratico cristiano in Veneto, e in altre aree dette bianche del Nord, e dunque esponenti della Dc sarebbero stati eletti in tutti quei collegi; contemporaneamente vi erano concentrazioni del voto socialista, ad esempio a Milano, e repubblicano, ad esempio in Romagna, di conseguenza i relativi seggi sarebbero stati vinti da socialisti e repubblicani. Dunque, fermandoci a questi esempi, dovrebbe risultare evidente che in Italia pur con una legge maggioritaria non sarebbe emerso un sistema bipartitico, ma multipartitico.
Ed ora come ci si aspetta che funzioni questa legge elettorale mista? O meglio come la componente maggioritaria condizionerà quella proporzionale? Sulla base dell’esempio inglese e dell’esperimento immaginario su quello italiano la risposta a questo punto dovrebbe essere ovvia: un effetto maggioritario frammentante ovvero in senso multipartitico ci sarà se si mantenessero concentrazioni territoriali diversificate del voto ovvero se ad esempio nel centro Italia si mantenesse un forte PD ovvero un forte partito di Berlusconi in altre aree o ancora emergessero concentrazioni del voto per i 5 Stelle in altre aree del paese. Se invece queste concentrazioni si indebolissero – ad esempio, per effetto delle scissioni a sinistra – e diversi collegi divenissero più contendibili, allora con molta probabilità tale effetto avvantaggerebbe le destre che riuscissero a creare coalizioni distribuite in tutto il territorio nazionale. D’altra parte, il M5 Stelle rinuncerebbe di fatto a numerosi collegi uninominali non facendo programmaticamente alleanze e coalizioni di sinistra non emergerebbero per le scissioni di alcuni mesi fa, rinunciando così alla vittoria in diversi collegi uninominali. Dunque, limitandoci al fattore considerato (distribuzione del voto nei collegi uninominali), l’aspetto che diviene determinante per migliori risultati elettorali e un effetto quasi bipolarizzante (ovviamente data l’esistenza di coalizioni non può essere bipartitico) é la strategia delle coalizioni. Se invece una strategia del genere non riuscisse alle destre e se malgrado tutto il PD mantenesse diversi collegi uninominali e altri ne conquistasse il M5S, allora l’effetto maggioritario non si vedrebbe. E i risultati sarebbero assimilabili a quelli di un sistema interamente proporzionale per l’effetto frammentante dell’uninominale in presenza di diverse concentrazioni territoriali del voto.
Per anticipare più precisamente i risultati elettorali di marzo questa analisi dovrà essere ancora approfondita analizzando anche il peso di altri fattori. Se ne potrà trattare in un prossimo articolo.