La dinamica favorevole degli utili lenisce i problemi, ma il sistema bancario italiano non ha risolto tutte le sue debolezze.Per i conti delle banche il rischio più ravvicinato sembra quello di una riduzione dell’attività di finanziamento, dovuto sia all’irrigidimento dei criteri di selezione degli intermediari (lato offerta) sia all’aumento dei tassi attivi, sia al deteriorarsi della congiuntura
Nelle Considerazioni finali lette il 31 maggio scorso, il governatore Ignazio Visco ha riservato positive espressioni per le banche italiane: “Nel suo insieme, il sistema bancario si trova in condizioni sufficientemente buone”, ha detto. Su questa sintesi convergono quasi tutti gli osservatori, con differenze che si concentrano più sul futuro prossimo che sul presente.
Sotto il profilo contabile, i risultati del primo trimestre sono decisamente favorevoli, con utili pari a circa tre volte quelli del corrispondente trimestre del 2022. A differenziare nettamente l’allora da adesso è la drastica correzione della politica monetaria iniziata a luglio dello scorso anno: in meno di 12 mesi i tassi di riferimento (in discesa dal novembre 2011) sono stati aumentati ben 8 volte per un totale di 4 punti percentuali, l’ultima volta pochi giorni fa. Per il futuro, la Bce mantiene aperta ogni ipotesi, ma il messaggio che per ora prevale è quello del: “non è finita qui”.
Al di là della divergenza di vedute tra i membri del Consiglio direttivo, le scelte della Bce saranno determinate soprattutto dai seguenti fattori:
– il rallentamento in atto nella dinamica economica. Nel primo trimestre 2023 l’eurozona ha registrato la seconda contrazione congiunturale consecutiva ed è quindi entrata in recessione tecnica, soprattutto per l’andamento della Germania. Gli ottimisti leggono questi dati come un lieve rallentamento, gli altri come fase iniziale di una significativa contrazione;
– la velocità con la quale rientreranno le tensioni sui prezzi. Nell’eurozona la cosiddetta inflazione core è stimata nell’anno in corso ancora sopra al 5% e a ridosso del 2% solo nel 2025;
– la conferma del tono piuttosto espansivo delle politiche fiscali, cui contribuisce la progressiva realizzazione del programma Next Generation Eu.
Di questo scenario di tassi in rialzo beneficia il margine d’interesse, la cui crescita si traduce in ampia misura in aumento degli utili. Da qui la previsione di un consuntivo annuale 2023 di tono analogo o anche migliore di quello conseguito nel 2022. Nel valutare questa previsione è utile evidenziare che gli intermediari italiani (non diversamente dalla maggior parte di quelli europei) non hanno seguito l’esempio di molti grandi gruppi statunitensi, che nella prima trimestrale 2023 hanno cominciato ad accantonare risorse in vista di svalutazioni del portafoglio prestiti che l’evolvere della congiuntura potrebbe rendere necessarie.
Tra la realtà statunitense e quella europea/italiana esistono profonde differenze, tra le quali quella sulla fidelizzazione della clientela dal lato della raccolta. Negli Stati Uniti i depositi continuano a lasciare le banche: secondo i dati della Federal Reserve aggiornati a inizio giugno, in 12 mesi i depositi a vista sono diminuiti in un anno di oltre $ 1.300 mld (quasi l’8%), in parte ($500 mld circa) convertiti nei più remunerativi time deposit, per il resto indirizzati verso impieghi di diversa natura (nelle ultime settimane i fondi monetari sono aumentati di circa $250 mld).
Diversa la situazione nell’area euro e in Italia. Nell’eurozona, nei 12 mesi terminanti ad aprile 2023 i depositi totali (famiglie + imprese non finanziarie) crescono dell’1,6% a fronte di una flessione di quelli overnight (-4,7%) e di una ripresa della raccolta netta dei fondi d’investimento (dopo quattro trimestri di limitata flessione). L’Italia si discosta in qualche misura da questo quadro evidenziando una contrazione dei depositi totali (-2,3%), riflesso di una più marcata riduzione dei depositi a vista (-5,6%).
Difficile in tutti i contesti stabilire quanto l’eventuale flessione rifletta la fisiologica riduzione della liquidità accumulata durante la pandemia e quanto invece esprima la ricerca di forme di investimento più remunerative, in grado di proteggere meglio i risparmi dall’inflazione
La ridotta mobilità della raccolta contribuisce a raffreddare le spinte al rialzo dei tassi passivi. Facendo riferimento alle consistenze, in Italia nell’arco di tempo prima indicato, il tasso mediamente applicato sui depositi a vista è cresciuto di appena 20 centesimi (allo 0,22%), quello relativo a tutte le forme di deposito bancario di 32 centesimi (allo 0,64%), quello delle obbligazioni di 67 centesimi (a 2,39%). Nei prossimi mesi, una parte dei titolari di depositi rinegozierà questi tassi o si indirizzerà altrove (verso fondi d’investimento e titoli pubblici), ma l’aumento dell’onerosità della raccolta sarà prevedibilmente graduale e complessivamente limitato.
È comunque possibile che le banche divengano più aggressive dal lato della raccolta, essendo chiamate entro giugno a restituire una parte importante dei fondi TLTRO. È un problema di costo del funding piuttosto che di disponibilità (la Bce mantiene accessibili le sue linee di liquidità ma con la stretta monetaria il loro costo costo è significativamente aumentato).
Rapido e intenso è stato invece l’adeguamento dei tassi attivi. Quelli mediamente applicati in Italia alle famiglie sono aumentati di 116 centesimi, un incremento che raddoppia (oltre 250 centesimi) nel caso delle imprese. Pesa la diversa incidenza dei finanziamenti a tasso variabile (quasi tre quarti del totale nel caso delle imprese).
Nelle settimane scorse ha guadagnato adesioni l’ipotesi della greedflation (inflazione da avidità), che individua nelle scelte di pricing di molte imprese uno dei fattori che rallentano il raffreddamento dell’inflazione. Questa ipotesi è ritenuta meritevole di attenzione anche da personalità autorevoli come Fabio Panetta (membro del board della Bce), che nelle settimane scorse ha affermato che invece di preoccuparsi della rincorsa prezzi-salari sarebbe il caso di guardare alla spirale profitti-prezzi.
Muovendo dalla diversa reattività dei tassi bancari attivi e passivi, si sarebbe tentati di dire che il comportamento delle banche è riconducibile allo schema della greedflation. Non c’è dubbio che la svolta monetaria ha aperto spazio ad un cospicuo incremento dei profitti delle banche e che gli oneri finanziari condizionano certamente i costi di produzione di beni e servizi. Pur con questa premessa, tuttavia, è necessaria cautela prima di coinvolgere le banche in questo ragionamento e segnalare l’opportunità di un intervento normativo che preveda un incremento straordinario della tassazione a loro carico, come avvenuto per le imprese del settore dell’energia.
Per circa un decennio, infatti, le banche sono state esposte ad uno scenario di segno opposto: tassi riferimento nulli o su livelli solo marginalmente positivi con straordinaria compressione dello spread tra i tassi. A questo si deve aggiungere che l’aumento dei tassi, oltre che una spinta al rialzo al margine d’interesse, produce minusvalenze per le poste dell’attivo a tasso fisso (portafoglio titoli, prima di tutto), minusvalenze che non condizionano la dinamica degli utili solo perché sterilizzate/nascoste dalle norme contabili. Forse più opportuno sarebbe esercitare pressioni sui vertici bancari affinché una parte significativa dell’incremento dei profitti sia impiegata in un rafforzamento patrimoniale, sebbene anche sotto questo profilo le certificazioni della Banca d’Italia sono rassicuranti (alla fine dello scorso anno il grado medio di patrimonializzazione delle banche significative italiane era superiore di circa 40 punti base a quello delle banche significative dei paesi partecipanti al Meccanismo di vigilanza unico).
Per i conti delle banche italiane il rischio più ravvicinato sembra quello di una riduzione dell’attività di finanziamento, dovuto sia all’irrigidimento dei criteri di selezione degli intermediari (lato offerta) sia all’aumento dei tassi attivi, sia al deteriorarsi della congiuntura. Ad aprile i prestiti al settore privato sono diminuiti sui dodici mesi dello 0,5% (+0,3% nel mese precedente), per effetto di un indebolimento dei prestiti alle famiglie (+1,4%) e di un’accentuazione della contrazione di quelli alle imprese (-1,9% dopo -1,1% nel mese precedente).
La dinamica favorevole degli utili lenisce i problemi, ma ovviamente non è successo che il sistema bancario italiano abbia risolto tutte le sue debolezze o che queste siano solo di ordine congiunturale. Tra le fragilità ancora in essere Visco ha ricordato quella delle banche minori: “gli indicatori delle banche meno significative non sono sempre altrettanto favorevoli”. Rispetto a qualche tempo fa, il problema appare largamente ridimensionato sia nella gravità sia nell’estensione (per effetto del drastico consolidamento tra le casse rurali). D’altra parte, però, l’esperienza di questi anni in numerosi paesi ha mostrato che anche crisi di banche di dimensioni contenute possono determinare fenomeni di contagio e significative turbolenze sui mercati finanziari.