DOVE INVESTONO GLI ITALIANI
L'educazione finanziaria spetta anche alle banche

Il grado di educazione finanziaria degli italiani, misurato ogni anno dal Rapporto Consob sulle scelte di investimento delle famiglie, mostra quanto cammino c'è ancora da fare su questo fronte. E testimonia come le banche, prime interlocutrici dei risparmiatori, potrebbero fare molto di più

Paola Pilati

Nelle banche e nelle istituzioni finanziarie dovrebbe essere obbligatorio far leggere il rapporto della Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane a tutti, dall’amministratore delegato al bancario di sportello, anche se ormai quest’ultima è una categoria in estinzione.

E dovrebbero leggerlo non tanto per riflettere sui cambiamenti in merito al tipo di prodotto su cui via via nel tempo si spostano le preferenze – sarebbe meglio dire: le speranze – dei risparmiatori, o su chi decide in famiglia – sono gli uomini, si sa -, ma per fare un mea culpa. Perché l’industria del risparmio si è certo evoluta in tecnologia ma ha perso il suo contatto con i suoi clienti. Ne ha perso la fiducia, la funzione di affidamento e consiglio, l’opportunità di farli evolvere anche sul piano delle conoscenze finanziarie.

Ingeneroso addossare alle banche tutte queste responsabilità? Prendendo il panel del sondaggio del Rapporto curato da Nadia Linciano come rappresentativo degli italiani, se oggi l’86 per cento degli intervistati sa che cosa è l’inflazione, ma solo la metà sa come si misura, e ancor meno sa la differenza tra interesse reale, nominale e inflazione, molto dipende dal fatto che chi il denaro lo compra e lo vende – le banche – non spiega al suo cliente su quali basi lo fa. Non perde tempo a dare informazioni chiare, oppure non perde tempo e basta, tenendo il cliente alla larga: l’appuntamento in banca è più complicato di quello con un luminare della medicina ed è occupato soprattutto a far firmare carte che mettano la banca al riparo da contestazioni. Eppure la responsabilità primaria del ruolo dell’intermediario nel promuovere l’educazione finanziaria viene indicata dagli intervistati prima di quella delle istituzioni pubbliche e della scuola.

La gestione del proprio risparmio, gli investimenti e la programmazione per il futuro sono ancora un campo minato per la maggioranza degli italiani.

La consapevolezza dei rischi dei prodotti finanziari appartiene in media solo a una persona su tre, secondo il Rapporto; la conoscenza di obbligazioni e azioni, peraltro vendute a piene mani dalle banche, solo tre persone su dieci ce l’hanno chiara. E l’esposizione agli errori è proporzionale alla fragilità economica: più ricchezza finanziaria e reddito sono bassi, più la trappola dell’errore è alta.

Ma c’è un altro indicatore che testimonia che per il risparmiatore la banca non è più un punto di riferimento ispiratore nell’impiego del denaro: un investitore su due – indipendentemente da reddito e ricchezza e dall’alfabetizzazione finanziaria – punta infatti ai certificati di deposito e ai buoni fruttiferi postali, che sono in cima alla classifica delle preferenze dopo essere cresciuti dall’anno scorso di 7 punti percentuali. Al secondo posto ci sono i fondi comuni di investimento (preferiti dal 29 per cento della platea degli intervistati, dato che sale al 44 per cento in caso di investitori assistiti da un consulente). Prudenza ispirata anche dal clima economico di incertezza che ci avvolge tutti, certo, anche se il 29 per cento degli investitori è convinto di avere tutte le carte in regola per battere il mercato, ma anche questo è un segnale che il cammino dell’educazione finanziaria è ancora lungo.

Della consulenza, però, non sono in tanti a fidarsi. E chi dice di apprezzarli lo fa soprattutto per il rapporto relazionale che ha intrecciato con il consulente negli anni, più che per la competenza di cui ha avuto prova.

Chi del consulente ne fa a meno lo fa perché investe pochi soldi, o perché la consulenza costa troppo e perché dubita dalla sua utilità. E d’altra parte i consulenti non sembrano molto creativi, visto che al 73 per cento dei clienti propongono uno o al massimo due prodotti in portafoglio, con una diversificazione – pilastro della tutela del denaro – assai ridotta. Dunque, che motivo ci sarebbe di preferirli ai consigli degli amici e dei parenti, per di più gratuiti, disinteressati e anche più comprensibili? Appunto: il “consulente informale”, quello con cui ti vedi al bar o la domenica a pranzo è in crescita di 8 punti nel sondaggio.