Le tre chiavi dell'autonomia di Bankitalia
Giuseppe Guglielmo Santorsola
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Molte delle affermazioni esposte ultimamente in merito a ruolo, compiti, responsabilità ed errori della Banca d’Italia (BdI) e/o della Banca Centrale Europea (BCE) nella gestione di propria competenza delle condizioni di crisi dei sistemi bancari e nel governo della politica monetaria, denotano bassa conoscenza sia dell’assetto istituzionale di una società avanzata, sia dello stato dei fatti.

Non è corrispondente a questi ultimi affermare che la Banca d’Italia sia un’istituzione privata essendo invece, un ente pubblico (come definito in Statuto). Le azioni sono certo in mano ad azionisti privati, in larga parte (sempre per Statuto) soggetti vigilati da un lato e finanziati dall’altro – dal brevissimo al lungo termine. Possiamo analizzare in prima battuta la Governance della BdI, comprendendo che questi soci partecipano ad un’Assemblea (la cui convocazione, negli ultimi anni, non coincide più con la data delle Considerazioni Finali) in cui votano approvando un bilancio i cui proventi finiscono in gran parte allo Stato (4,5 mld€ nel 2018 fra dividendo e tributi), mentre solo 218mln€ sono stati attribuiti agli ”azionisti” di cui sopra.

Questa assemblea non nomina amministratori od organi apicali, non discute né tantomeno decide strategie, né ha poteri di indicare i membri del Consiglio Superiore, quelli da cui origina il lungo percorso di nomina e verifica dei componenti del Direttorio (in particolare il Governatore), unico potere effettivo loro assegnato.

Sotto il profilo della durata dei poteri, con la autoriforma del 2005, la Banca d’Italia ha escluso qualsiasi ipotesi di posizione a vita (come era in precedenza per il Direttorio e per il Consiglio). Tutte queste cariche prevedono un solo rinnovo per un mandato di durata esennale (nozione antica, preferita rispetto a sessennale). A completamento di questo disegno, anche al contrario di altre istituzioni indipendenti, il percorso non contempla ipotesi di ritorno. Chi esce dai ruoli non rientra.

Volendo esaminare aspetti meno positivi sotto il profilo strutturale, possiamo sottolineare la stessa riforma del 2005 come un episodio conseguente alla percezione di una Governance troppo accentrata e non condivisa in termini collegiali, che poteva aver favorito episodi non rappresentativi di una piena indipendenza. 

Altrettanto criticabile nel recente passato è stato il frequente passaggio di dipendenti di livello medio-alto dalla posizione “arbitrale” al “campo da gioco, scelta, tuttavia, facente parte del libero arbitrio di ciascun lavoratore. E frequente nella magistratura (fra posizioni inquirenti e giudicanti e verso attività esterne) e nello scambio di posizioni fra Authorities.

Ricordiamo invece che, negli ultimi 40 anni, a livello di direttorio, soltanto Lamberto Dini e Mario Draghi sono stati chiamati non provenendo da carriera interna, ma comunque da Istituzioni internazionali che dirigevano (FMI e FSB).

Dal Direttorio stesso invece sono stati selezionati Presidenti della Repubblica, del Consiglio, Ministri del Tesoro e dell’Economia e/o Presidenti di altre entità Pubbliche. Solo per completezza e parallelo di analisi, è individuabile un passaggio diretto frequente dalla politica e, ancor di più dalle posizioni governative verso istituzioni indipendenti (Berlanda, Spaventa, Vegas e Savona verso la Consob). Ricordiamo infine che, dal 2011, l’IVASS – ex-ISVAP – è di fatto un’enclave della BdI, ma autorità indipendente dal Ministero da cui ebbe origine (il MISE odierno).

Comunque si esamini il problema, non emerge una diversità specifica della Banca d’Italia sotto il profilo dell’assetto istituzionale. Se poi si esamina il tema, altrettanto evidenziato, delle riserve auree, dobbiamo definire la Banca d’Italia quale custode e quale accumulatore (soprattutto nel 2018), non come gestore o manager dell’asset.

Come è noto inoltre, la divisa aurea non ha più funzione di mercato o di equilibrio da 48 anni. Non è concepito e condiviso che tale asset sia disponibile per un governo (salvo situazioni dittatoriali o assolutistiche). Invero, talvolta qualche paese, che dispone della capacità di estrazione dell’oro, provvede ad operazioni di vendita al fine di attenuare il peso del proprio disavanzo, ma gode nel caso del peculiare privilegio di poterlo rimpiazzare con nuove estrazioni e non in dipendenza dell’equilibrio o meno dei rapporti con altri Paesi.

Ancora, questo metallo svolge, da sempre e in particolare dal dopoguerra, un ruolo di equilibrio a livello internazionale, attraverso la singolare soluzione per la quale ogni Stato detiene oro di proprietà di altri Stati, mentre parte del proprio giace viceversa. Ho volutamente utilizzato il verbo “giace” perché non deve essere oggetto di gestione quanto di riserva.

L’equilibrio di un’azienda, di una istituzione o di uno Stato non dipende dalle condizioni di un solo lato del bilancio. Si ottengono prestiti, sottoscrizione di titoli e credito in generale perché si dispone a riscontro di un asset di sicurezza. L’Italia è forse il leader mondiale (in positivo) di questa strategia: un grande debito, un PIL consistente, forti riserve: una logica a treppiede o a tre pilastri che governa numerosi aspetti dei sistemi sociali ed economici. Nel 1974 le riserve auree furono utilizzate a garanzia di un “celebre” prestito all’Italia; questo perché le riserve valutarie erano pari a pochi giorni di importazioni: evento augurabilmente irripetibile, attualmente di fronte a bilancia dei pagamenti equilibrata e riserve di valute più che adeguate.

Aggiungiamo ancora una considerazione differente ma coerente: il modello europeo della Banca Centrale (a differenza parziale di quello statunitense) prevede una forte separazione fra politica economica e politica monetaria. Se i gestori della prima possono incidere sulla governance della seconda, l’equilibrio del sistema si frange e possono essere assunte scelte, coerenti con missioni “politiche”, ma non con la stabilità favorita dal sussistere di contrappesi. Potremmo valutare se questa soluzione impedisca o freni modelli di sviluppo più celeri: d’altro canto ne limita la volatilità e l’instabilità, fattori auspicalmente non troppo da accentuare quando si debbono governare numeri di popolazione significativi (60 milioni nel nostro caso).

Diverso, infine, è se si desidera discutere aspetti tecnici dell’operato della stessa Banca d’Italia in termini di vigilanza. La linea di demarcazione nel giudizio è il 1.1.2016, quando i suoi poteri si sono estesi ed approfonditi verso i momenti di gestione che precedono la manifestazione di una crisi bancaria.

Prima, si poteva persuadere (moral suasion) o approfondire l’azione ispettiva, ma non sopravanzare la funzione volitiva dei soci ed i poteri da questi assegnati agli amministratori. Dopo la BRRD, l’intrusione attiva della Vigilanza nella gestione si è dotata di nuove competenze e poteri ed il verificarsi di nuove crisi, oppure lo scarso controllo di quelle in corso di manifestazione, può essere valutato normativamente e politicamente con ottica diversa.

Resta un dubbio maturato in tanti anni di attenzione verso i sistemi bancari: quanto è pericoloso e rischioso assumere scelte drastiche nei confronti di una istituzione (la banca) che amministra denaro non proprio ma di depositanti che – in caso di preoccupazione – possono assumere condizioni di panico dagli effetti devastanti e non più frenabili?

La liquidità “acida” di una banca è mediamente intorno al 3/5 per mille proprio perché – nella maggioranza dei casi – prelievi e versamenti si compensano nella massa dei grandi numeri. Se viene a mancare quest’ultima condizione, la sostenibilità non supera lo spazio di una giornata (basta dividere mille/tre!). Non è conveniente “parlare” negativamente di una banca di deposito. È più utile “agire nel silenzio”, nel tempo più rapido possibile. Un messaggio utile per tutti i “cinque poteri” di una società (Parlamento, Governo, Magistratura, stampa e TV).

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