Le spine dell’Arbitro
Paola Pilati

Il caso del cliente che si vede bloccare il conto corrente dalla banca per costringerlo a sistemare le sue pendenze economiche con la banca stessa; quello a cui viene impedito di chiudere il conto per lo stesso motivo; il titolare di libretto di risparmio a cui vengono modificate le condizioni contrattuali senza avvertirlo; e poi ipoteche eccessive, calcolo dei tassi di mutuo e di finanziamento non trasparente, interessi anatocistici addebitati a una linea di credito, con il risultato che aggiungendo gli interessi maturati al capitale, il debito residuo si gonfiasse. Le mille trappole che banche e società finanziarie (queste ultime in numero crescente) tendono ai loro clienti sono raccontate nell’ultima Relazione annuale dell’Arbitro bancario finanziario come casi giuridici, ma illuminano anche alcune pieghe dell’attività bancaria in cui è la caccia a spremere tutto il guadagno possibile dalla vendita dei servizi il vero obiettivo.

L’ondata di richieste di giustizia che arriva all’indirizzo dei vari collegi in cui si articola sul territorio l’Abf è ormai una specie di tsunami: i casi sottoposti sono stati 21.652 contro i 13.578 del 2015, cioè sono cresciuti nel 2016 del 60 per cento e il ritmo ha continuato a incalzare nel primo quadrimestre di quest’anno, il che fa prevedere un ulteriore incremento. Non tutti i ricorsi sono fondati, certo, e solo la metà vengono accolti, ma evidentemente per chi fa appello ne vale la pena.

Il boom dell’ultimo anno è dovuto soprattutto a una precisa casistica: i contratti di cessione del quinto, quel tipo di finanziamento in cui chi si indebita si impegna a cedere al finanziatore una quota non superiore a un quinto del proprio stipendio o pensione. Come contagiati da uno stesso virus, i malcapitati clienti hanno prodotto oltre 15 mila segnalazioni all’Abf. È certamente un boom che, se ancora ce ne fosse bisogno, rappresenta un altro tassello dell’Italia in difficoltà economica: i casi esposti all’Abf sono concentrati soprattutto nelle regioni del Sud, con l’aggiunta della Liguria, a raccontare come alle ristrettezze si aggiunga anche una cultura finanziaria più precaria.

Ma quando si entra nel merito delle contestazioni, è evidente come le banche non esitino ad applicare regole “borderline” al cliente: non inseriscono nel “taeg”, che è il tasso sintetico, il costo dell’assicurazione contro il rischio di insolvenza, incassano il prezzo riconosciuto all’intermediario anche se costui non c’è, oppure caricano all’inverosimile i costi “upfront”, quelli che comunque restano in cassa anche in caso di estinzione anticipata del prestito.

Nella classifica degli intermediari contro i quali si concentrano i ricorsi ci sono ovviamente i gruppi bancari maggiori, in quanto più presenti sul territorio, ma in cima alla graduatoria spiccano le società che hanno come attività prevalente il prestito veloce vincolando lo stipendio o il credito al consumo (il record va a Prestitalia spa del gruppo Ubi banca, 2.866 ricorsi, il 13 per cento del totale), un filone di business che sembrava scomparso, o archiviato in un’altra epoca del paese.

Ci si può chiedere che fine facessero le controversie quando l’Arbitro non c’era, e ci si può rispondere che ovviamente molti casi restavano sepolti, altri potevano prendere la strada della giustizia ordinaria, perdendosi nei mille rivoli della sua lentezza. Adesso, per la legge della domanda e dell’offerta, molti che prima rinunciavano si attivano, trovando a disposizione non solo i collegi dell’Arbitro a vagliare, ma anche una pletora di avvocati a patrocinare. Naturalmente anche molti clienti non sono proprio delle vittime ma a volte “ci provano” (eppure il 75 per cento delle pronunce è comunque pro-ricorrente); alcune decisioni non vengono poi accettate, per cui i protagonisti proseguono l’iter rivolgendosi ai tribunali.

Ma in grande maggioranza il metodo della composizione stragiudiziale ha avuto successo, e ha comportato la restituzione a chi aveva ragione di una bella cifretta, duemila euro in media.

Dai dati forniti dalla Relazione nasce però un dubbio: che il sistema Abf, nonostante l’aumento del numero dei collegi a fine 2016, e la crescita ulteriore prevista (dagli attuali 7 a 10), non abbia la forza, per come è organizzato ora, di reggere tutto il lavoro che gli arriva sul tavolo. I 113 componenti totali distribuiti nelle otto commissioni contano su una segreteria per istruire le pratiche che totalizza 121 persone: sono tanti o pochi? Stando al risultato, tutto appare alquanto sottodimensionato: invece dei 105 giorni previsti dalla legge per la definizione dei ricorsi, il tempo necessario ad arrivare a una decisione è il triplo, 314 giorni. Sempre meno che nei tribunali, certo. Ma nonostante l’aumento delle riunioni dei collegi e lo sforzo dei commissari, non è un risultato da incorniciare.

Forse la Banca d’Italia, da cui l’Abf dipende, dovrebbe dimostrare di crederci di più, ed evitare che la nuova strada imboccata per la composizione delle liti diventi in breve tempo un flop dal punto di vista dell’efficacia, di cui la variabile tempo è componente essenziale. Come? Intanto dando più risorse. E magari anche più poteri, sul modello di quanto avviene all’estero, per esempio in Gran Bretagna e Germania, dove le decisioni dei rispettivi organismi hanno natura vincolante. Il che a lungo andare rappresenterebbe uno strumento di incentivazione a coltivare rapporti più trasparenti tra clienti e banche.