INVESTIMENTI
Le ragioni del rialzo dell'oro

Gli acquisti delle banche centrali, il taglio dei tassi, la svalutazione del dollaro, la Cina... che cosa può spingere il lingotto a quota 4.000

Paola Pilati

L’oro può arrivare a 4.000 dollari l’oncia. Gli analisti cominciano a intravedere nuovi record per il metallo giallo, la cui quotazione, dopo anni di sonno sotto ai 2.000 dollari, negli ultimi mesi ha incominciato a inerpicarsi con passo instancabile e ha superato già a dicembre 2023 la vetta dei 2.000 senza mostrare l’intenzione di fermarsi. E, se il record di tutti i tempi è stato di 3.355 dollari l’oncia, raggiunto nel 1980 grazie agli anni della crisi petrolifera, nel nuovo contesto di instabilità mondiale quel livello potrebbe essere stracciato, magari non subito ma in un futuro non tanto lontano.

Il risveglio dell’oro, proprio nel momento in cui i tassi dei Tbond si sono spinti oltre il 5%, è apparso subito strano, visto che il metallo è sempre stato considerato l’alternativa all’investimento nel Tesoro americano solo quando i tassi non sono attraenti. E l’attesa di un taglio dei tassi da parte della Fed non basta a giustificare tanta effervescenza sull’oro. Oltretutto, con il dollaro che resta sempre piuttosto forte nei rapporti di cambio. Con quale logica si è mosso dunque chi stava comprando a piene mani?

I responsabili sono stati subito individuati. Non lo è certo lo Zimbabwe, anche se ha appena annunciato che le propria valuta sarà agganciata all’oro ma certo non muove il mercato, e non lo sono neppure gli ETF, che hanno visto al contrario molti realizzi. Le prime responsabili sono state le banche centrali. I “big boys” del mercato, i pesi massimi, hanno aumentato gli acquisti per rimpinguare le proprie riserve: solo tra gennaio e febbraio le banche centrali hanno acquistato 64 tonnellate d’oro e la Cina ne ha importate 132 dalla Svizzera, avverte UBS.

Ma è possibile che queste stesse forze che hanno trainato il mercato fina ad ora possano continuare a muoverlo verso i record stratosferici che qualcuno azzarda? Certo, il taglio dei tassi che prima o poi arriverà potrà aiutare, ma non basta. Forse una risposta sta nel comportamento dei tanti “small boys”, i risparmiatori/investitori individuali che traggono dagli eventi i segnali di pericolo. Che sono le guerre, l’incertezza della campagna elettorale americana, le tensioni commerciali, il sistema delle alleanze che si ridisegna e via dicendo. Ed è anche, per esempio, la consapevolezza che con l’inflazione – almeno un certo livello di inflazione – si dovrà convivere più a lungo del previsto. Questi individui tornano all’oro come rete di sicurezza, come è sempre stato in passato.

Poi c’è la Cina. Che non è soltanto un grande acquirente di lingotti, ma lavora con una strategia a lungo termine in cui il renminbi si vuole imporre come valuta alternativa al dollaro e che provoca intanto l’uscita massiccia dei cinesi dai Treasury. Il paradosso è che un indebolimento del dollaro può essere, oggi, anche un interesse degli stessi Usa. La competizione delle merci cinesi sui mercati danneggia l’apparato produttivo americano e i suoi lavoratori, e una svalutazione del biglietto verde sarebbe quindi una ricetta bipartisan, vista con favore da chiunque arrivi alla casa Bianca.

Insomma, i venti che possono mettere le ali ai piedi delle quotazioni dell’oro sono forti e convergenti. E difficilmente possono cambiare direzione.

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