intervista a Enrico Giovannini, fondatore e direttore scientifico dell'Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile
La frattura nel fronte delle imprese. Le scelte contraddittorie del governo sulle regole. Le nomine che non arrivano. Eppure, dalla finanza al sistema produttivo, ecco perché il mondo continua a muoversi nella direzione della sostenibilità
L’Europa è in fase di stanca sul cammino del Green Deal. Il vento che spira dall’altra parte dell’Atlantico, con il negazionismo trumpiano sull’emergenza dei cambiamenti climatici, ci fiacca, noi tutti governi e abitanti del Vecchio continente, e così ammainiamo le bandiere con cui guidavamo la marcia verso gli obiettivi di sostenibilità per il 2030. Il pianeta e la sua salvaguardia non sono più una priorità. E il raggiungimento della neutralità climatica per il 2050 resta sempre più nebuloso.
È questa la narrazione che da qualche tempo prende il sopravvento: i grandi fondi d’investimento ricacciano in fondo alla lista delle preferenze i criteri ESG, il mondo dell’impresa si gira dall’altra parte e resta attaccato ai vecchi modelli di business, oppure scarica esplicitamente sulla transizione energetica i suoi guai.
Un clima, insomma, che dovrebbe precipitare nella più cupa depressione un uomo di battaglie per la sostenibilità come Enrico Giovannini, fondatore e direttore scientifico dell’ASviS (l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, la rete di oltre 300 soggetti della società civile creata per attuare in Italia l’Agenda 2030 dell’Onu), ex ministro delle Infrastrutture nel governo Draghi e del Lavoro nel governo Letta.
Invece no. «Le imprese tuonano contro le politiche europee, ma poi le usano. La parola chiave è: convenienza. Perché il costo delle rinnovabili è inferiore a qualsiasi altra fonte energia. Le imprese che hanno capito che la sostenibilità conviene, vanno in questa direzione, nonostante tutto il rumore di fondo», dice Giovannini.
Un paper dell’ASviS appena pubblicato racconta appunto un’altra Italia. Racconta il paese dove le associazioni d’impresa, dalla Confindustria alla Confagricoltura, dalla Confartigianato agli Agricoltori italiani, dalla Lega Coop alla Confcommercio all’Unioncamere dalla CNA a Utilitalia, hanno imboccato tutte, con progetti diversi, il cammino comune della transizione energetica e la vedono come motore per la crescita economica del paese.
Professore, il paper dà conto delle iniziative concrete che il mondo delle imprese sta gestendo, delle richieste da parte loro di interventi su il cambiamento climatico, l’accesso all’energia, lo sviluppo di competenze e la disponibilità di strumenti finanziari. Sul piano delle dichiarazioni pubbliche, però, si ha la sensazione di una frenata. Come spiega questa ambiguità del fronte imprenditoriale?
«Più che ambiguo lo definirei fratturato. La frattura è tra chi ha capito che l’investimento su transizione digitale ed ecologica è il futuro, come dice il Green Deal, e chi ritiene di avere ancora un futuro nel vecchio mondo. Tuonano contro le politiche europee, ma poi le usano, perché il costo delle rinnovabili è inferiore a qualsiasi altra fonte energia: l’Ungheria di Orban, per esempio, sta facendo investimenti massicci sulle rinnovabili, perché costa meno che fare qualsiasi altra cosa».
L’Italia appare oggi uno dei paesi che frena di più, che chiede rimodulazione degli impegni, rinvii degli obiettivi…
«Il problema è che le imprese che hanno capito dove sta la convenienza, in Italia, sono ancora poche o molto silenziose. Questo spiega perché si tende a dare enfasi alla posizione delle imprese che non vogliono andare in quella direzione, ma sono orientate al rinviare, aspettare e soprattutto al chiedere soldi pubblici per fare ciò che si deve fare».
È l’eterna questione della struttura produttiva italiana – tante imprese di piccole dimensioni – a produrre la resistenza al nuovo?
«I dati dell’Istat, basati sui bilanci delle imprese, dimostrano che le imprese manifatturiere con oltre 10 addetti (le micro sono escluse), che hanno un profilo elevato di sostenibilità e hanno investito nel triennio 2016-2018, nel triennio successivo hanno visto aumentare il loro fatturato, rispetto alle imprese non orientate alla sostenibilità, del 16,7 per cento. Per le imprese con profilo di sostenibilità medio, l’aumento è stato del 5,2 per cento. Ma il primo gruppo rappresenta poco più del 7 per cento del totale, il secondo gruppo il 35 per cento circa. Quindi più della metà delle imprese italiane manifatturiere con oltre 10 addetti non sta investendo in sostenibilità. Sono queste ultime a pesare nelle associazioni di categoria. Ma questa frammentazione, che si trova anche in altri paesi, fa male al sistema economico, soprattutto dove c’è una bassa crescita della produttività come da noi».
Le critiche al Green deal dal fronte delle imprese serve ad alzare il livello delle richieste economiche, oppure è un cambio di direzione?
«L’onda trumpiana e l’onda populista hanno il loro peso nello spingere verso un cambio di direzione. Prendiamo l’auto. Tutti se la prendono con il Green Deal europeo e con la scadenza del 2035 sotto i morsi della concorrenza dei cinesi. Ma i cinesi hanno scelto l’auto elettrica nel 2005, quando la Fiat vendeva la Magneti Marelli e il suo amministratore delegato diceva che l’auto elettrica non aveva nessuna speranza. Poi, nel 2021, quando ero ministro e dovevamo prendere una posizione sull’obiettivo del 2035, ricordo che tutte le case automobilistiche europee ci dissero “basta che fissiate una data e noi siamo pronti”. Oggi fanno marcia indietro. Non c’è dubbio che la trasformazione di un settore così importante come quello dell’auto non è cosa facile, ma forse, come sempre succede quando i settori sono in difficoltà, ci si aspetta che intervenga la mano pubblica».
Eccoci al tema delle risorse: le organizzazioni delle imprese, nel vostro paper, non chiedono solo meno burocrazia, ma anche interventi infrastrutturali imponenti, nel settore idrico, nelle reti energetiche, nel dissesto del territorio. Problemi endemici a cui oggi dovrebbe far fronte il PNRR… Le risorse ci sono?
«Da ministro ho stanziato circa 6 miliardi per mettere in sicurezza il sistema idrico – rinnovare gli acquedotti, potenziare gli invasi, ecc. – ma ne servirebbero circa 12 in più. Non subito, certo, ma questa dovrebbe essere la prospettiva. Invece, dopo il PNRR non c’è niente. Dove trovare i soldi? Ogni anno spendiamo 20 miliardi di euro per dare alle imprese e alle famiglie sussidi dannosi per l’ambiente. Basterebbe trasformarli gradualmente – l’Italia si è impegnata farlo – in sussidi favorevoli all’ambiente, cioè per la transizione ecologica ed energetica. Il mercato non vede l’ora di investire sulle rinnovabili, ma oggi le regole lo frenano».
Un esempio?
«Secondo gli operatori delle rinnovabili, il decreto legge appena approvato (il n° 175 del 21 novembre 2025, ndr.), che interviene sulle “aree idonee” per la loro installazione (dopo che il TAR aveva bocciato il decreto ministeriale del 2024), è una toppa peggiore del buco. Il decreto precedente affidava alle Regioni il compito di identificare le aree idonee per l’installazione di rinnovabili. Risultato: in base a quel decreto la Sardegna ha detto che il 99 per cento delle loro aree erano inidonee, stessa cosa altre Regioni. Sulla base del nuovo decreto, secondo gli esperti è l’Umbria che diventa tutta inidonea. Inoltre, gli investimenti già partiti vengono messi a rischio».
Fare e disfare la tela: si fa peccato a pensare che sia la politica a creare degli intralci?
«Beh, considerando l’enorme difficoltà del tema, si potrebbe fare di più e meglio. Prendiamo il tema delle autorizzazioni delle sovrintendenze. Su questa materia il cambio della Costituzione che l’ASviS propose nel 2016 si è realizzato nel 2022, con il risultato di mettere sullo stesso piano la tutela del patrimonio naturale – ambiente, biodiversità ed ecosistemi – e la tutela di quello storico. Il bilanciamento di questi aspetti non è semplice e va trovato: tocca al ministro della Cultura, non di controllare le singole sovrintendenze, ma di emanare le linee guida a cui devono adeguarsi. Peccato che quelle in vigore risalgono al 2010, un mondo fa rispetto alle tematiche di oggi. Così è capitato che quando da ministro delle Finanze Daniele Franco voleva mettere i pannelli solari sul tetto del Mef, la sovrintendenza si è opposta, dicendo che si vedevano… dall’alto. Non si può ragionare così».
Come si risolvono conflitti di questo tipo?
«Cercando una sintesi politica. Le leggi attuali consentono di risolvere una serie di nodi, magari portando la decisione finale nel Consiglio dei Ministri, ma devi avere la volontà di farlo».
Vuol dire che le leggi, anche le migliori, non bastano, perché si impigliano su una rete di decisioni politiche…
«Ovviamente. Ed è da qui che nasce la fortissima critica del mondo ambientalista, ma anche di molte imprese, al PNIEC, il Piano nazionale integrato energia clima: è il piano stesso a dire che non raggiungeremo gli obiettivi di taglio delle emissioni e di nuove rinnovabili che dobbiamo realizzare in base ad accordi europei».
Un piano troppo timido?
«Esatto, lo abbiamo detto anche come ASviS. Ma abbiamo un problema serio anche sul Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, il PNAC, approvato dal governo nel dicembre 2023 dopo anni discussioni e mai partito. Motivo? Non si riesce a costituire il comitato che dovrebbe sovrintendere la sua attuazione. Come ha ammesso il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin, è bloccato perché diversi istituzioni che dovrebbero nominare i propri rappresentanti non li nominano. Possiamo aspettare due anni per far partire una cosa così importante?».
Questo governo ha portato la macchina della transizione ecologica nelle sabbie mobili?
«È un governo contraddittorio, da una parte fa cose positive, dall’altra assume decisioni che la rallentano, come nel caso dei blocchi all’installazione di impianti fotovoltaici sui terreni agricoli. Ma contraddittoria è anche l’Europa: dopo aver preso decisioni importanti con il Green deal, adesso sta tornando indietro, ad esempio sulla rendicontazione di sostenibilità e sul rispetto dei diritti umani delle imprese. Mentre la Cina, per vendere in Europa, ha imposto alle sue imprese gli obblighi di regolamentazione identici a quelli europei, ora l’Europa li smantella. Che senso ha?».
Anche il mondo della finanza, dopo la sbandata per gli investimenti green, è diventato più freddino…
«Niente affatto. Continua a finanziarli. È vero che la finanza sostenibile ha avuto una frenata con arrivo di Trump, ma poi è ripartita, soprattutto in Europa perché conviene, come mostrano i dati più recenti. Insomma, una parte consistente del mondo continua a muoversi nella direzione della sostenibilità, magari senza l’enfasi comunicativa che vedevamo fino a un anno fa, quando tutto (le imprese, i prodotti, ecc.) sembrava sostenibile, anche senza esserlo».