La crisi che ha colpito il sistema finanziario globale ha portato in alcuni casi alla nazionalizzazione di enti creditizi privati, attraverso misure emergenziali di sostegno pubblico. Nell’ambito dell’Unione europea, gli interventi dei singoli Stati membri avevano lo scopo di limitare il propagarsi del dissesto dei singoli istituti all’intera economia nazionale o comunitaria. Come è noto, tuttavia, queste misure hanno imposto agli azionisti e ai creditori subordinati la condivisione degli oneri derivanti dalla crisi (cd. burden sharing). Attraverso la sentenza dell’8 novembre 2016 (Dowling et al. C-41/15), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito la legittimità di una misura di ricapitalizzazione realizzata contro il volere dell’assemblea degli azionisti. In particolare, attraverso questa pronuncia è stata affermata la prevalenza dell’interesse pubblico sulla tutela degli azionisti in situazioni di crisi per l’economia nazionale e comunitaria.
La crisi finanziaria ha generato in Europa una vera e propria rivoluzione della disciplina relativa alla regolamentazione dell’attività bancaria e finanziaria. Per quanto riguarda la gestione delle crisi, nel 2014 è stata attuata la nota Bank Resolution and Recovery Directive (BRRD). Già prima dell’adozione di un quadro normativo specifico, tuttavia, gli Stati membri sono stati chiamati ad intervenire con specifiche misure al fine di arginare la crisi che si stava propagando a tutta l’economia mondiale. In alcuni casi, tuttavia, tali misure sono state intraprese in disaccordo con gli azionisti delle società in cui lo Stato è intervenuto, come ad esempio nel noto caso della Northern Rock.
In questo contesto, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha assunto e continua a rivestire un ruolo centrale. Più volte, infatti, la Corte è stata chiamata a esprimersi su vicende che hanno interessato il salvataggio pubblico di banche anche prima della BRRD. In tali casi, in particolare, è stato necessario valutare la legittimità degli interventi pubblici di salvataggio rispetto alla normativa in vigore durante la crisi.
Nella recente sentenza Dowling (C-41/15), la Corte di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi sulle misure intraprese dall’Irlanda durante la crisi del debito sovrano per fronteggiare il dissesto della Irish Life and Permanent plc. Nel luglio del 2011, infatti, il Governo Irlandese aveva imposto all’assemblea dei soci un’iniezione di capitale pubblico per 2,7 miliardi di Euro, acquisendo il 99% delle azioni e nazionalizzando l’istituto. Nella specie, il Ministro delle Finanze Irlandese aveva formulato una proposta di ordinanza ingiuntiva ai sensi del Credit Institutions (Stabilisation) Act 2010, a seguito della quale – verificato il rispetto di tale legge e senza previo contraddittorio con la banca – la High Court Irlandese aveva ordinato l’aumento di capitale e l’emissione di azioni a favore del Ministro stesso. Del resto, questa misura era stata ritenuta l’unica strada perseguibile, in quanto né gli azionisti esistenti né ulteriori investitori privati sembravano disposti a riportare il patrimonio regolamentare della banca ai livelli richiesti dalla Banca Centrale Irlandese.
A seguito dell’imposizione del salvataggio, alcuni azionisti della banca si sono ritenuti lesi dall’ingresso dello Stato nel capitale della società e hanno proposto ricorso al Tribunale irlandese. Il loro ricorso, in particolare, verteva su tre punti: il mancato coinvolgimento dell’assemblea nell’aumento di capitale, l’esclusione del diritto di opzione e una determinazione del prezzo per azione inferiore al valore nominale. Questa misura, in particolare, si sarebbe posta in contrapposizione con la Seconda Direttiva societaria del 1977, oggi rifusa nella Direttiva 2012/30/UE.
Ai sensi di tale Direttiva, sia la deliberazione degli aumenti di capitale che la limitazione del diritto di opzione sulle azioni di nuova emissione sono generalmente devolute all’assemblea dei soci. Inoltre, la Direttiva vieta espressamente l’emissione di nuove azioni per un importo inferiore al valore nominale. A ciò si aggiunge che nella Direttiva non è prevista alcuna deroga sull’applicazione delle relative disposizioni in caso di una crisi finanziaria. Alla luce di queste previsioni, il Tribunale Irlandese ha ritenuto necessaria la rimessione della questione alla Corte di Giustizia. Ciò, in particolare, al fine di valutare la legittimità della misura di salvataggio rispetto alle disposizioni comunitarie citate.
Con la pronuncia emessa l’8 novembre 2016, la Corte ha ritenuto legittima la misura adottata dall’Irlanda, in quanto non vi ha rinvenuto una violazione della Seconda Direttiva societaria. La sentenza, in particolare, afferma la derogabilità delle disposizioni della Seconda Direttiva sulla competenza per le deliberazioni attinenti al capitale azionario in situazioni straordinarie di crisi. In tal modo, viene espresso il principio secondo cui l’interesse pubblico a garantire la stabilità del sistema finanziario prevale sulla tutela del patrimonio e dei diritti degli azionisti nella banca.
Nel motivare la pronuncia, la Corte e l’avvocato Generale danno particolare importanza al campo in cui si inserisce la Seconda Direttiva. In particolare, tale misura comporterebbe una armonizzazione solo parziale della materia, visto che essa si colloca principalmente nell’ambito della realizzazione della libertà di stabilimento. Il principale scopo della Direttiva sarebbe pertanto quello di assicurare il rispetto dei diritti degli investitori da parte degli organi delle società nel normale ordinamento della società. Al contrario, invece, la Direttiva non assicurerebbe una tutela universale rispetto agli atti emanati dall’autorità pubblica.
Da queste argomentazioni consegue la derogabilità della tutela dei soci in favore delle misure adottate dallo Stato in alcune limitate ipotesi. Tra queste, la Corte individua proprio l’insorgere di una crisi sistemica che minacci la stabilità finanziaria e che permetterebbe proprio il superamento degli strumenti di protezione adottati in favore dei soci. In ogni caso, la Sentenza precisa che le misure di intervento pubblico in violazione degli interessi dei soci devono comunque intendersi eccezionali. Ciò in quanto è sempre necessario un giudizio di bilanciamento alla luce del principio di proporzionalità e anche rispetto al diritto di proprietà dei soci, sancito a livello comunitario dall’articolo 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (cd. Carta di Nizza).
I principi dettati dalla pronuncia in esame si pongono in continuità con la recente sentenza Kotnik del 19 luglio 2016 (C-526/14), con cui la Corte di Giustizia ha avuto modo di anticipare alcune delle conclusioni proposte in questo caso. La fattispecie trattata nella sentenza Kotnik aveva ad oggetto principalmente il tema degli aiuti di stato rispetto all’applicazione del bail in. Tuttavia, già in quell’occasione la Corte di Giustizia aveva avuto occasione di pronunciarsi sulla derogabilità della Seconda Direttiva attraverso misure straordinarie di condivisione degli oneri.
Sia la sentenza Dowling che la sentenza Kotnik rappresentano un’importante evoluzione rispetto alla precedente giurisprudenza della Corte di Giustizia e – per la prima volta – affermano la possibilità di superare i diritti degli azionisti in situazioni straordinarie di crisi. La precedente giurisprudenza cd. Pafitis del 1996 (C-441/93), infatti, aveva escluso la legittimità di un provvedimento di ricapitalizzazione adottato contro il volere dell’assemblea dei soci.
La Corte giustifica questo apparente revirement alla luce di due principali argomentazioni. La prima poggia sulla diversità delle fattispecie in esame, in quanto la sentenza Pafidis prendeva in esame un provvedimento adottato in un contesto economico ordinario. Da questo discende che l’intervento pubblico in deroga ai diritti dei soci, in ogni caso, può considerarsi legittimo solo in ipotesi di assoluta straordinarietà. Ad esempio, questo si può dire nel caso in cui sono coinvolte le sorti dell’economia di un’intera nazione o dell’Unione Europea.
Inoltre, al fine di giustificare il nuovo orientamento, la sentenza fa leva sull’evoluzione della disciplina finanziaria avvenuta negli anni. Tale evoluzione, in particolare, si è concretizzata nell’attuazione della terza fase dell’Unione Monetaria Europea, con la conseguente modifica dei Trattati. Attraverso la lettura combinata del nuovo Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e dello Statuto del SEBC e della BCE, in particolare, assume un ruolo centrale la posizione dei singoli Stati, che sono espressamente chiamati ad assicurare il funzionamento della vigilanza prudenziale e la stabilità finanziaria. Alla luce di queste previsioni, è possibile far rientrare nei poteri dei singoli Stati l’adozione di un provvedimento con cui viene imposta una misura di condivisione degli oneri ai soci della banca. Ciò in quanto in tal modo si garantisce l’interesse pubblico e la stabilità del sistema finanziario e, pertanto, si tutela un interesse superiore rispetto alla tutela dei soci approntata dalla Seconda Direttiva.
Un ulteriore principio che emerge da questa pronuncia è quello della legittimità della condivisione degli oneri (cd. burden sharing), che si è affermato sempre di più a partire dalla crisi del 2007. Secondo la politica dell’Unione Europea, infatti, nella risoluzione delle crisi del settore creditizio deve essere limitato il sostegno finanziario pubblico, dovendosi ricorrere anzitutto alle risorse degli azionisti e obbligazionisti subordinati. Nelle intenzioni delle autorità europee, la condivisione degli oneri con azionisti e creditori è volta a ripartire in modo più equo le perdite generate dalle crisi, riducendo il cd. moral hazard degli operatori economici.
Questo principio è stato espresso dapprima attraverso provvedimenti di soft law e, in particolare, con la Comunicazione della Commissione sul settore bancario del 2013 in materia di aiuti di Stato. Nel 2014, invece, la BRRD ha dato compiuta espressione al principio di condivisione degli oneri, estendendolo a sua volta con il cosiddetto bail in. La BRRD, tra l’altro, ha introdotto anche una deroga espressa alle disposizioni della Seconda Direttiva relative alla competenza dei soci sulle scelte relative al capitale, che opera nel momento in cui si applicano strumenti di risoluzione.
Alla luce di queste previsioni, potrebbe dirsi su un piano più ampio che la Corte di Giustizia ha affermato la legittimità del cd. burden sharing a prescindere dall’approvazione degli specifici provvedimenti di armonizzazione adottati dopo la crisi. Tuttavia, per quanto sia stata riconosciuta la legittimità delle misure pubbliche già alla luce del quadro normativo in essere durante la crisi, sarebbe sbagliato ritenere che i successivi interventi del legislatore europeo non fossero necessari. Al contrario, proprio la necessità di assicurare la piena certezza del diritto in situazioni di crisi e di ottenere un’ ordinata risoluzione delle banche, hanno imposto di fissare questi princìpi in uno specifico provvedimento vincolante e, quindi, di approvare la BRRD.