È noto come gli investitori istituzionali italiani — casse di previdenza, fondi pensione e fondazioni bancarie — lamentino lo scarso finanziamento all’economia reale, rispetto a quanto avviene nel resto d’Europa: basti pensare come i fondi pensione italiani investano appena il 7% in azioni del nostro Paese, contro il 12% della media europea e il picco del 30% del Belgio. È però evidente come i fondi pensione (così come gli altri soggetti poc’anzi citati) non abbiano come obiettivo quello di favorire lo sviluppo delle imprese, ma di gestire il risparmio previdenziale dei propri iscritti; mentre non è chiaro, almeno di primo acchito, perché mai l’a.d. di Mercer Italia – dalla cui ultima ricerca, European Asset Allocation Survey 2019, sono tratti i dati principali — arrivi ad affermare come in Italia vi siano poche occasioni di investimento, una scarsa propensione ad investire in Pmi, nonché una sorta di deficit culturale degli stessi investitori. Se si può forse convenire su quest’ultimo punto — inteso nel senso per cui gli investitori istituzionali sono restii a svolgere un ruolo di “investitore puro”, non avendo gli stessi (fondi pensione e casse) fini di lucro o speculativi, necessita invece una maggiore indagine la prima parte dell’assunto. Gli strumenti messi ormai a disposizione dal legislatore, italiano ed europeo, sembrerebbero infatti rivolti proprio a favorire il finanziamento delle PMI — che come è noto costituiscono gran parte della struttura industriale italiana — anche e soprattutto, in un periodo di crunch credit, attraverso canali alternativi a quello bancario.
L’analisi di queste pagine è rivolta a fare un rapido confronto – per gli approfondimenti ci rimettiamo ad un articolo in corso di stesura — , in maniera comparata, fra gli strumenti che, nell’attuale quadro regolatorio italiano e comunitario, sono a disposizione dei soggetti che vogliano finanziare l’economia reale — quindi anche e soprattutto le PMI — : in ordine cronologico di introduzione, quindi, i fondi di mini bond, i fondi di credito e le recentissime Società di investimento semplice.
Per queste ultime, ci si chiederà anche perché siano state introdotte, posto che le stesse funzioni sembravano già poter essere assolte dai fondi di credito, per di più in un contesto normativo che, già tendendo all’ipertrofia e alla normazione di dettaglio, andrebbe piuttosto semplificato e snellito, piuttosto che ulteriormente appensatito con nuovi istituti (ancora fra l’altro da rendere operativi con i necessari decreti attuativi), per essere realmente attraente per gli investimenti soprattutto derivanti da fondi costituiti all’estero.
In linea più generale, si vuole qui cercare di tracciare una sorta di “stato di salute” degli strumenti di finanziamento — non bancario — all’economia reale nell’attuale contesto italiano ed europeo, tentando così di spiegare meglio perché gli investitori istituzionali, che pure si dimostrano, da un biennio a questa parte, molto interessati agli investimenti nell’economia reale per favorire lo sviluppo del sistema produttivo italiano, con conseguente ricaduta positiva sull’occupazione e sulle adesioni al secondo pilastro, tendano a ritenere che vi siano in Italia poche occasioni di investimento e una scarsa propensione ad investire in Pmi.
Ma andiamo con ordine.
Sui fondi di mini bond si è gia molto scritto in passato: si tratta di strumenti che investono prevalentemente in obbligazioni emesse da società non quotate, di piccola e media dimensione (a esclusione delle c.d. micro imprese, ovvero quelle che hanno meno di dieci dipendenti e un fatturato annuo o un totale attivo inferiore a 2 milioni di euro), per i quali il legislatore italiano è intervenuto più volte per favorirne la crescita.
Per esempio, con norme rivolte non solo al regime di tassazione degli interessi e degli altri proventi derivanti dall’investimento nei predetti titoli, ma anche la possibilità che il fondo centrale di garanzia per le PMI possa essere esteso anche alle SGR che, in nome e per conto dei fondi di investimento che gestiscono, sottoscrivano mini bond; e che questi ultimi siano compatibili con le disposizioni in materia di limiti di investimento stabiliti per i fondi pensione, aggiornati con il DM 166/2014 che, in effetti, consente maggiormente di allargare le scelte gestionali rispetto alla precedente normativa. Uno strumento che è stato reso quindi progressivamente più efficace, pur richiedendo una attenta selezione delle PMI in cui investire, ed una accorta individuazione, prevenzione e/o gestione dei conflitti di interesse.
Con i fondi di credito si è fatto addirittura di più: il legislatore infatti con una serie di modifiche al Testo unico della Finanza, seguite dalla normazione di dettaglio di rango secondario (i Regolamenti del Ministero dell’economia e delle finanze e quelli delle competenti Autorità di vigilanza) ha attribuito agli OICR costituiti in Italia e di FIA UE (quindi autorizzati nel rispettivo Stato membro di costituzione), la possibilità di erogare, nel nostro Paese, crediti a soggetti diversi dai consumatori, a valere sul proprio patrimonio.
Il tutto, come è stato già osservato (vedi Alfonso Parziale e Federico Stoppello: https://mirror.fchub.it/gli-oicr-di-credito-e-lennesima-revisione-del-tuf-un-codice-in-perenne-mutazione) lasciando spazi di manovra per un (da taluni) auspicato, riassetto delle fonti in materia di finanziamento alle imprese da parte di fondi comuni di investimento costituiti in Italia o all’estero (soprattutto per questi ultimi che mantengono ancora alcune problematicità).
I fondi di credito si pongono quindi in rapporto di species a genus rispetto agli ELTIF: i fondi di investimento europeo a lungo termine, una particolare tipologia di fondi alternativi (quindi sempre di tipo chiuso), sottoscrivibili però anche da investitori al dettaglio.
E così veniamo al recente c.d. Decreto crescita 2019 (provvedimento adottato dal Governo in aprile per fronteggiare il rallentamento economico, che al momento in cui si scrive – dati de Il Messaggero del 17 agosto 2019 – attende ancora 52 decreti attuativi), che definisce le Società di investimento semplice come il “FIA italiano riservato a investitori professionali, costituito in forma di SICAF che gestisce direttamente il proprio patrimonio” e che ha per oggetto esclusivo l’investimento diretto del patrimonio raccolto nelle PMI non quotate su mercati regolamentati. Come ben illustrato in questa rivista (vedi Giulia Candiano https://mirror.fchub.it/con-il-decreto-crescita-nascono-le-sis-ecco-come-funzioneranno/), si tratta a tutti gli effetti di gestori (sotto soglia), che gestiscono direttamente il patrimonio raccolto, con un tetto massimo di 25 miliardi di euro, da investire in PMI non quotate e senza possibilità alcuna di avvalersi della leva finanziaria.
Anche se per le SiS mancano ancora i decreti attuativi (quindi non sono ancora di fatto operative), non è impossibile cercare di tirare le fila, chiarendo le perplessità da cui eravamo partiti: si capisce meglio, infatti, a questo punto del discorso perché la sensazione degli investitori istituzionali sia quella di una scarsa attrattiva del sistema nei confronti dei finanziamenti per l’economia reale (quindi soprattutto per le PMI non quotate), nonostante — o forse proprio a causa — dei numerosi strumenti in teoria a disposizione.
Sottolineo infatti in teoria, perché a ben guardare — a parte le SiS che sono per ora solo una bella intuizione ancora da rendere operativa e coerente nel disegno del TUF, ed è quindi prematuro darne una valutazione — in pratica ogni strumento via via introdotto ha sempre, come si è visto, qualche aspetto che non convince (anche solo di collocazione sistematica), che lo rende poco efficace in relazione agli obiettivi strategici di lungo periodo che i singoli investitori istituzionali si pongono.
Non era meglio forse non assecondare la bulimia normativa che porta spesso ad una moltiplicazione di istituti che dovrebbero assolvere agli stessi compiti, e concentrarsi piuttosto su un unico strumento, migliorandolo progressivamente fino a farlo diventare realmente efficiente ed utile per il settore delle PMI, e al tempo stesso un’opportunità per gli investitori istituzionali così da creare un circolo virtuoso con ritorni sull’economia reale? Come dimenticare la lezione dei giuristi romani – sicuramente anche una deviazione di chi scrive, che tradisce così la sua formazione di partenza — , che tendevano all’economia dei mezzi giuridici, evitando la proliferazione di istituti se non strettamente necessari, e forse proprio per questo riuscirono a governare per tanto tempo un così vasto impero?