La politica monetaria nell’ultimo decennio ha dovuto affrontare la Grade Crisi e poi la Pandemia. Come è possibile gestire gli shock causati da un eccesso di domanda di riserve da parte delle banche?
Gli importanti sviluppi emersi dall’ultima riunione del Comitato di politica monetaria statunitense (FOMC), in cui la Federal Reserve ha prolungato il proprio orientamento espansivo decidendo di mantenere i tassi fermi ai (bassi) livelli attuali finché l’inflazione non supererà il 2%, al fine di raggiungere la piena occupazione, hanno di nuovo posto sotto i riflettori l’importanza delle politiche dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali nella gestione di situazioni di crisi e la necessità di strumenti per valutare l’efficacia di tali politiche.
Alcuni utili strumenti che ci consentono di stimare gli effetti delle politiche monetarie sono i modelli econometrici studiati nel campo dell’economia monetaria, uno dei principali campi d’indagine della scienza economica. Questi strumenti, realizzati mediante la sintesi di una struttura teorica ben definita in cui i comportamenti individuali sono accuratamente modellati e di procedure statistiche di stima, consentono di simulare quali saranno gli effetti di determinate politiche tenendo in considerazione le reazioni ottimali degli operatori economici. Un approccio che procede sulla linea tracciata dalla famosa critica di Robert Lucas Jr. ai modelli macroeconomici di larga scala usati fino agli anni ’70, che ignoravano la reazione degli agenti ai cambiamenti di policy.
Per realizzare modelli credibili, e fornire perciò strumenti utili al policymaker in ambito decisionale, è perciò cruciale analizzare in maniera seria quali sono i driver delle decisioni a livello microeconomico, ovvero nell’ambito della singola famiglia e della singola impresa. Il lavoro “Excess Reserve Management and the Fall in the Money Multiplier during the U.S. Financial Crisis” (cfr. www.rivistabancaria.it) tenta di contribuire in parte a questa letteratura, studiando le decisioni di gestione delle riserve in eccesso da parte della singola banca commerciale.
Il tema è particolarmente rilevante alla luce degli avvenimenti scaturiti dalla crisi finanziaria che ha raggiunto il momento più drammatico nel settembre 2008, con il fallimento di Lehman Brothers e l’inizio di un periodo caratterizzato da una forte recessione e da una marcata incertezza. Fu proprio nel settembre 2008 e nei mesi immediatamente successivi che le banche commerciali statunitensi iniziarono in maniera repentina ad accrescere la loro quantità di riserve in eccesso. Una crescita spettacolare, che portò il totale delle riserve in eccesso detenute da istituzioni finanziarie statunitensi dai circa due miliardi di dollari dell’agosto 2008 agli ottocento miliardi del gennaio 2009.
Il rapporto tra le riserve in eccesso e i depositi bancari crebbe da 0,003 a 1,06 nello stesso timeframe, causando un crollo di circa il 40% nel moltiplicatore monetario, una variabile chiave in economia monetaria e definita come il rapporto tra l’offerta di moneta e la base monetaria. Il moltiplicatore è spesso utilizzato come punto di riferimento teorico per la spiegazione degli effetti delle politiche monetarie: agendo sulla base monetaria, le banche centrali possono controllare l’offerta di moneta attraverso il moltiplicatore; alternativamente, possono modificare il moltiplicatore stesso alterando il coefficiente di riserva obbligatoria (la percentuale dei depositi che è necessario tenere sotto forma di riserve).
Lo studio citato aveva lo scopo di indagare quali sono le variabili chiave che influenzano la politica di gestione delle riserve in eccesso da parte delle singole banche centrali, al fine di realizzare un modello quantitativo in grado di replicare la variazione osservata nei dati e di fornire allo stesso tempo una motivazione di natura economica per la magnitudine della variazione osservata.
Per raggiungere tale obiettivo, è necessario partire da un’analisi generale del problema di gestione delle riserve in eccesso da parte delle banche. Tale analisi ci rivela quali sono le componenti chiave del problema e le variabili fondamentali da includere nel framework teorico.
Innanzitutto, è cruciale comprendere che le banche sono obbligate a tenere una certa quantità di riserve per legge; il lavoro si concentra sulle riserve eccedenti questa quantità. Quali sono i costi di tenere riserve in eccesso? Il costo è principalmente uno: il differenziale tra il tasso d’interesse pagato dalla banca centrale su queste riserve e il rendimento ottenibile investendo in maniera alternativa le risorse (ad esempio, concedendo un prestito a clientela primaria).
Data la presenza di questo costo, è intuitivo presumere che ci siano anche dei benefici connessi al tenere riserve in eccesso. Esiste infatti un motivo precauzionale alla base di questo comportamento: non potendo le banche prevedere perfettamente le entrate e le uscite di risorse, outflow imprevisti di liquidità quando le riserve in eccesso sono assenti potrebbero far calare ripetutamente il coefficiente di riserva sotto il livello minimo richiesto dalla normativa, implicando vari tipi di costi (principalmente costi di aggiustamento e reputazionali, ma anche penalità). Pertanto, le banche devono bilanciare in maniera ottimale costi e benefici derivanti dal possesso di riserve in eccesso.
Un framework teorico ideale per stilizzare tale comportamento è fornito dai modelli teorici d’inventario, strumenti teorizzati tra gli anni ’50 e ’60 che consentono di studiare situazioni di gestione di asset liquidi in presenza di costi d’aggiustamento (una popolare applicazione è quella allo studio della domanda di contante da parte degli individui).
Nel lavoro è stato adattato uno di questi modelli (studiato da Miller e Orr in un paper del 1966) al problema della gestione delle riserve in eccesso e si è tentato di rispondere alla seguente domanda: può il modello spiegare l’improvvisa crescita delle riserve come conseguenza del cambiamento di un parametro di politica monetaria (lo spread di rendimento) o strutturale (il costo di aggiustamento o la volatilità)? La risposta è no: il modello produce elasticità (risposta dei risultati a variazioni nei parametri) troppo piccole per spiegare uno shift come quello osservato nei dati.
Nella parte finale del lavoro viene proposta un’estensione del lavoro di Miller e Orr, con l’aggiunta della possibilità di variazioni negative grandi e infrequenti nello stock di riserve, per modellare l’eventualità di corse agli sportelli (bank runs). L’analisi teorica di una versione semplificata del framework, realizzata da Alvarez e Lippi nel 2013 per studiare la domanda di contante delle famiglie in presenza di spese considerevoli e infrequenti (come l’acquisto di un’auto), sembra promettente in quanto il modello è in grado di generare dei veri e propri policy switch al crescere della frequenza attesa delle corse agli sportelli.
In altre parole, quando la percezione della probabilità di una corsa agli sportelli da parte delle banche cambia e supera una certa soglia, si ha una discontinuità nella politica di gestione ottimale che genera un boom nella quantità di riserve in eccesso possedute.
Quello raggiunto è un risultato promettente, che ovviamente necessita ancora di molto lavoro ma che allo stesso tempo apre la strada alla costruzione di uno strumento potenzialmente valido per l’analisi di policy degli effetti della politica monetaria (in particolare della politica dei tassi d’interesse, inclusi quelli pagati dalla FED sulle riserve in eccesso) sui comportamenti delle singole banche commerciali.