Osservatorio Banche
Le banche italiane nell'anno del Covid

Il risultato netto che le banche italiane hanno conseguito nel 2020 si prospetta - sulla base dei conti al 30 settembre - in forte flessione: dal price to book value ratio alle rettifiche sui crediti alle sofferenze, ecco tutte le debolezze del nostro sistema del credito

Silvano Carletti
Carletti

Giunti a dicembre è consuetudine delineare il consuntivo dell’anno in fase di chiusura e ipotizzare i tratti di rilievo per quello prossimo all’avvio. Al termine di un anno cosi sfavorevole, si tratta di un esercizio che determina soprattutto preoccupazione. 

Quanto questa conclusione valga anche per il settore del credito è quotidianamente ricordato dal Price to Book Value ratio, il rapporto tra valutazione di mercato e dato contabile. In sostanza, quando questo rapporto scende al di sotto dell’unità, la comunità degli investitori ritiene che per la società in esame si prefiguri un futuro difficile e avaro di soddisfazioni.

Le maggiori banche statunitensi, che operano in un contesto relativamente meno sfavorevole (soprattutto assenza di tassi di riferimento negativi), si posizionano su valori non troppo lontani dall’unità o anche al di sopra se la componente finanziaria dei ricavi è particolarmente importante (alla fine di novembre: 0,65 per Citigroup, 0,7 per Wells Fargo, 1,00 per Bank of America, 1,5 per JP Morgan Chase).

Per la maggior parte  delle banche europee, invece, l’unità è da tempo (cioè ben prima della pandemia) quasi un miraggio, con le banche più solide a 0,5-0,6 e le altre (la maggior parte) ben al di sotto di questo livello. Questa distribuzione si ritrova anche per le banche italiane: alla chiusura di novembre: Intesa è a 0,56, UniCredit a 0,35, Monte dei Paschi a 0,22. 

Come si prospetta per gli istituti di credito del nostro Paese il consuntivo di questo annus horribilis? La risposta a questa domanda che viene dai conti al 30 settembre presentati nelle scorse settimane è abbastanza chiara.

Avendo come riferimento il dato ufficiale dei sei maggiori gruppi bancari, il risultato netto registra in media una flessione superiore al 90% (da 9,2 a 0,6 mld); se si escludono gli effetti indotti dal profondo mutamento del perimetro contabile operato in questi due ultimi anni da UniCredit, la contrazione si riduce al 60%; se poi si esclude il Monte dei Paschi in ampia perdita (-1,5 mld) anche perché impegnato in una complessa operazione di risanamento e ristrutturazione, la riduzione media del risultato netto scende al 40%.

È però anche doveroso rilevare che il dato d’insieme è stemperato dalla performance di Intesa, che (considerata senza Ubi) ha limitato l’arretramento del suo risultato d’esercizio al -7%, un consuntivo che però beneficia della ricca plusvalenza realizzata con la cessione di Nexi (circa 850 mln). Al netto di quest’ultima componente straordinaria la flessione del risultato netto registrata dalle maggiori banche italiane nei primi nove mesi dell’anno si posiziona a circa il 50%.

Nel proiettare questo arretramento sull’intero 2020 è importante sottolineare che le eventuali “sorprese” potrebbero essere quasi esclusivamente al ribasso (downside risk) considerate le rilevanti ricadute della “seconda ondata” del Covid-19. 

A determinare un inaridimento cosi grave della redditività sono state soprattutto due voci,  i ricavi e le rettifiche di valore. Sul fronte dei ricavi i 6 gruppi bancari registrano una flessione media di poco inferiore al 5%. I due gruppi maggiori che da soli determinano i ¾ dell’aggregato registrano andamenti divergenti, con Intesa (senza Ubi) che si ferma al – 3,2% e UniCredit (su cui pesano alcune cessioni) che invece registra una riduzione del -7,8%. È importante inoltre rilevare che la riduzione dei proventi prodottasi nel 2020 è addebitabile non solo al margine d‘interesse ma anche alle commissioni nette.

L’altra posta il cui andamento ha segnato in negativo il conto economico è quello delle rettifiche su crediti cresciute a/a nei nove mesi di oltre il 60% (circa 3 miliardi in più). Si tratta in larga parte di una prima mossa prudenziale, in previsione dei problemi attesi a partire dal prossimo anno. 

Se si guarda ai tassi di deterioramento correnti (rapporto tra il flusso dei nuovi crediti deteriorati e prestiti in bonis) la situazione è apparentemente soddisfacente: intorno all’1% nel caso delle famiglie, all’1,2% per le imprese. Nel primo caso si tratta della conferma di quanto già registrato da metà 2018; nel secondo caso, invece, appena nove mesi prima ci si posizionava ben più in alto (al 2%).

A determinare questa anomala discesa del tasso di deterioramento dei finanziamenti alle imprese sono state le moratorie, l’ampio volume di garanzie pubbliche, l’insieme delle misure di sostegno rese disponibili dalle autorità, nonché alcune flessibilità nella classificazione dei finanziamenti. 

La fragilità della situazione è chiaramente percepita dal management bancario. Una parte rilevante delle rettifiche, infatti, è motivata non da obblighi normativi ma da valutazioni puramente gestionali tradottesi sia nel trasferimento di significativi volumi di finanziamenti in bonìs dallo stadio 1 allo stadio 2 (prestiti per i quali si osserva un significativo incremento del rischio di credito) sia nell’aumento della copertura di questa categoria di finanziamenti.

Quale scenario attendersi per il 2021? Certamente difficile. Escludendo una terza ondata nella diffusione del Covid-19 e scontando un graduale ridimensionamento del rischio di contagio grazie alla diffusione del vaccino, è ragionevole pronosticare un apprezzabile miglioramento della congiuntura economica. Ma questo avrà riflessi limitati sui volumi dell’attività creditizia perché esiste già nell’economia liquidità sufficiente per sostenere livelli di attività più elevati.

L’indebolimento del flusso dei ricavi registrato nel recente passato non è peraltro dipeso da un arretramento del volume di attività: tra marzo e settembre (ultimo disponibile) i prestiti alle imprese sono aumentati di  circa 58 miliardi, mentre quelli alle famiglie sono rimasti sostanzialmente stabili. 

D’altra parte il margine bancario rilevante (differenza tra rendimento delle attività fruttifere e costo delle passività onerose) si è da tempo relativamente stabilizzato. Il prevalere di tassi d’interesse attivi particolarmente bassi ha in effetti trovato ampia compensazione in un costo della raccolta ugualmente su livelli ridotti: costo quasi nullo per la raccolta da clientela, costo negativo per gran parte del rifinanziamento della Bce (aumentato di ulteriori 107 mld tra marzo e settembre). Inoltre non trascurabile è il beneficio derivante dalla forte riduzione dallo scorso settembre del costo del mantenimento di riserve in eccesso

Snodo fondamentale della redditività bancaria nel futuro ravvicinato sarà l’andamento della qualità del credito. Un primo dato da considerare è che la legge di bilancio 2021 (ora in fase di discussione) prevede uno slittamento (a giugno 2021) per le moratoria di mutui, prestiti e finanziamenti per le Pmi. È il secondo rinvio e probabilmente non sarà l’ultimo. Si tratta di una decisione importante considerato che le quote dei prestiti alle famiglie e alle imprese che beneficiano di moratorie sono pari, rispettivamente, al 15% e al 23%. Nel caso delle imprese è stato anche rilevato che la differenza tra aumento dei finanziamenti da marzo in poi (58 mld) e ammontare delle garanzie pubbliche (90 mld circa) lascia intravedere una rimozione del rischio di credito per una parte del credito concesso prima della pandemia.

Con una flessione del Pil nel 2020 non lontana dal 10% e una ripresa nel prossimo anno nell’ordine del 4-5%, un sensibile deterioramento del portafoglio prestiti è conseguenza inevitabile. L’ampio ventaglio di interventi adottati congela in ampia misura la situazione  restituendo temporanea tranquillità ai creditori e (contabilmente) alle banche. Tra qualche tempo (non molto oltre il breve termine), tuttavia, si dovrà prendere atto dei danni permanenti prodotti dalla pandemia e i riflessi sulle banche non saranno modesti.

Secondo stime della Bce citate in un’audizione da Andrea Enria, in uno scenario grave ma plausibile i crediti in sofferenza presso le banche dell’area euro potrebbero raggiungere i 1.400 mld, ben al di sopra dei livelli della crisi finanziaria e del debito sovrano. Utilizzando il totale attivo come riferimento, la quota italiana sarebbe di circa 140-150 mld. 

La combinazione di una debolezza del risultato operativo e di un deterioramento della qualità del portafoglio prestiti lascia intravedere scenari difficili. Un aspetto su cui il recente Rapporto di Stabilità Finanziaria richiama l’attenzione con insistenza è che la situazione all’interno del sistema bancario italiano è molto diversificata.

Le differenze per quanto riguarda l’esposizione al rischio di inadempienza, il rafforzamento del livello delle coperture, la capacità reddituale e la forza patrimoniale, etc., sono solo in parte riconducibili alla dimensione. Se negli anni appena trascorsi l’azione coordinata di un ampio insieme di operatori ha potuto evitare che le criticità di alcune banche (Carige, Popolare di Bari, Tercas, etc) determinassero instabilità per l’intero sistema, è difficile immaginare interventi di questo tipo nei mesi a venire.