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approfondimenti/politica economica
Le banche centrali cambiano la rotta

Le banche centrali riducono i tassi di interesse per sostenere le economie in affanno. Che cosa aspettarsi nei prossimi mesi? Dipenderà da come i sistemi economici sapranno reagire agli interventi di politica economica e ai diversi shocks esogeni che si realizzeranno, tra cui quelli indotti dai mutamenti climatici e dalle tensioni e conflitti bellici in corso

Giorgio Di Giorgio
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Il 12 settembre la Banca Centrale Europea ha ridotto il tasso guida della politica monetaria (il tasso sui depositi presso la banca centrale) al 3,50%, confermando il percorso di graduale riduzione dei tassi di interesse avviato durante l’estate. In coerenza con le decisioni precedentemente assunte dal Consiglio Direttivo, nell’ambito della recente revisione dell’assetto operativo della BCE deliberato lo scorso marzo, gli altri due tassi di interesse “ufficiali” dell’Eurozona sono stati portati, rispettivamente, al 3,65%, quello sulle operazioni di rifinanziamento principali, e al 3,90% quello sulle operazioni di rifinanziamento marginali. Le ultime, vale ricordarlo,  sono operazioni attivabili su iniziativa delle controparti e cosiddette “a rubinetto”, nel senso che, a un tasso più elevato di quello di mercato, la Banca Centrale Europea è pronta a finanziare overnight (dietro adeguato collateral a garanzia) una singola banca che abbia necessità di liquidità per qualsiasi ammontare desiderato.

Il “corridoio dei tassi ufficiali” è stato quindi considerevolmente ridotto, coerentemente con il passaggio ad un modello di controllo basato su un livello abbondante di liquidità bancaria, rispetto alla maggiore ampiezza che aveva prima della crisi finanziaria internazionale. 

La gestione operativa della politica monetaria tende dunque ad assomigliarsi sempre più dai due lati dell’Oceano Atlantico, pur mantenendo BCE e FED, in termini di obiettivi finali della politica monetaria, mandati profondamente distinti. E proprio il mandato “duale” della FED, che mette al primo posto, seppure non in un ordine rigidamente gerarchico, l’attenzione alle deviazioni nel mercato del lavoro dalle condizioni di pieno impiego, può aver indotto la banca centrale americana a dar avvio, il 18 settembre, ad una riduzione rilevante, di ben 50 basis points, del tasso di interesse sui federal funds, che ora si attesta in una fascia compresa tra il 4,75 e il 5%.

Il secondo obiettivo di politica monetaria della FED, molto simile, seppur declinato diversamente rispetto al principale, se non unico, obiettivo della BCE, vale a dire la Stabilità dei Prezzi, avrebbe infatti probabilmente suggerito un atteggiamento di maggiore prudenza, una riduzione di un quarto di punto percentuale, il “passo” ordinario di variazione dei tassi da parte delle banche centrali oggetto di analisi.

Infatti, seppure il tasso di inflazione negli USA stia convergendo all’obiettivo del 2%, non lo ha ancora raggiunto e ci sono diversi settori in cui i prezzi sembrano mostrare una resistenza consistente a una maggiore riduzione del proprio tasso di crescita, in particolare nei servizi. Insomma, il percorso del rientro da una inflazione troppo alta è ben avviato, ma non completo e il rischio che riemergano tensioni in grado di produrre nuovi aumenti nella dinamica inflattiva non va sottostimato.

Alcuni segnali concreti di un rallentamento nella sin qui brillante performance dell’economia reale statunitense, in particolare nei confronti delle altre maggiori economie industrializzate, ha invece evidentemente convinto i membri del Federal Open Market Committee ad allentare prima la stretta monetaria, forse anche per non doverlo fare, in modo rilevante, proprio a ridosso delle elezioni presidenziali in autunno, con il rischio che qualcuno potesse leggere una tale mossa come un esplicito endorsement a favore del nuovo Presidente eletto.

In verità, la congiuntura macroeconomica attuale avrebbe suggerito forse l’inversione nella misura dei “tagli” da parte delle due principali banche centrali. Nell’Eurozona, la dinamica economica è fiacca e i rischi di rialzo dell’inflazione sono probabilmente inferiori a quelli che rimangono negli USA. Ma, pur avendo agito questa volta prima della sua omologa americana, è noto che la Banca Centrale Europea privilegi una conduzione più graduale e cauta della politica monetaria, ispirata dalla ricerca di un consenso che non è mai banale raggiungere, tenendo conto delle diverse istanze di singole economie la cui congiuntura non è sempre perfettamente sincronizzata.

Cosa attendersi per i prossimi mesi? Che le banche centrali continuino a ridurre i tassi di interesse, bilanciando di volta in volta il rischio di non riportare pienamente sotto controllo la dinamica dei prezzi con quello di mantenere oneroso il servizio del debito per imprese e famiglie che hanno visto crescere il costo dei finanziamenti contratti tra il 2022 e il primo semestre di quest’anno in modo rilevante. La dimensione e il timing della riduzione dei tassi dipenderanno da come i sistemi economici sapranno reagire agli interventi di politica economica e ai diversi shocks esogeni che si realizzeranno, tra cui non si possono non menzionare quelli indotti dai mutamenti climatici e dalle tensioni e conflitti bellici in corso.

Il ritorno ai tassi di interesse vicini allo zero o addirittura negativi è tuttavia difficile da pronosticare, nonostante una performance macroeconomica prevista ancora modesta a livello globale, in particolare per lo scarso contributo alla crescita che proviene dai paesi industrializzati. Dal punto di vista della politica economica, vanno sottolineati i limiti all’uso della leva fiscale indotti dai recenti aumenti, ovunque, dei rapporti tra debito pubblico e Pil. Il driver più efficace è probabilmente quello di un riorientamento delle politiche industriali, volto a favorire l’innovazione tecnologica e, soprattutto, una diffusione generalizzata e a costi contenuti della stessa, attraverso una sana regolazione che limiti lo strapotere recentemente conquistato dalle big tech sui mercati mondiali.