approfondimenti/politica economica
L’attendibilità del quadro programmatico della legge di stabilità sulla riduzione del debito

Nei programmi del governo (Legge di Stabilità e DEF), per fare scendere il debito fino al 119,8%, l’Italia deve produrre un avanzo primario per il quadriennio 2016-2019 da un livello del 2% fino al 4,3% nel 2019. Si tratta di risultati che nessun paese europeo dal 1995 ad oggi ha mai registrato e di uno sforzo che impedirà di spendere fino a 70 miliardi di entrate di bilancio, anche se destinate ad investimenti produttivi. Posto che lo sviluppo di un paese dipende da tre fattori basici: l’innovazione, la produttività e la demografia, e che, senza uno sviluppo di spessore, non esiste la possibilità di generare flussi tendenzialmente crescenti di entrate utili ad alimentare un circolo espansivo virtuoso, allora gli alti avanzi primari, soprattutto in fasi di bassa crescita mondiale, bassa inflazione e bassi tassi di incremento del debito privato, non sono compatibili con i livelli di sviluppo di cui l’Italia ha bisogno. Tuttavia, poiché la riduzione del peso del debito pubblico e degli oneri che produce è un obiettivo da perseguire, per ragioni di vulnerabilità della situazione attuale, di aumento dell’efficacia della politica fiscale e come strumento di stabilizzazione e di eliminazione dei fenomeni di spiazzamento degli operatori privati, diventa necessario individuare una strategia, alternativa a quella attualmente perseguita, che consenta a chi governa di attuare una politica fiscale fortemente e strutturalmente espansiva, operando comunque nel quadro dei vincoli europei.

Giuseppe Maria Pignataro
Pignataro

Seguendo la logica che ispira le regole europee introdotte con il six pack ed il fiscal compact i paesi con elevati debiti pubblici sono condannati ad un destino ineluttabile: devono produrre elevati avanzi primari per un lunghissimo tempo ed in qualunque situazione congiunturale per riuscire a ridurre il peso del debito. Ciò equivale a non spendere una quantità rilevantissima (fino a 70 miliardi) di entrate di bilancio prodotte dal paese, anche se destinate ad investimenti produttivi.

Nei programmi del governo (Legge di Stabilità e DEF) l’avanzo primario per il quadriennio 2016-2019 parte da un livello del 2% per innalzarsi fino al 4,3% nel 2019 e far scendere così il debito fino al 119,8%. Per gli addetti ai lavori appare chiaro lo “sforzo” fatto per far girare ed incastrare i numeri tra loro al fine di soddisfare gli obiettivi fissati nei patti. Un esempio eloquente è rappresentato dal deflatore del PIL che passerebbe dallo 0,3% del 2015 al 1,9% del 2018, concorrendo così ad incrementare il PIL nominale sulla base di presupposti oggi lontani dall’esperienza corrente.

Si tratta per questo di valori attesi alquanto precari ove si consideri anche che: il nostro paese è stato negli ultimi venti anni il più grande produttore di avanzi primari d’Europa e tra i primi nel mondo, ma nonostante questa virtù il nostro debito in rapporto al PIL è cresciuto in misura considerevole rimanendo saldamente al terzo posto nel ranking mondiale; da cinque anni nonostante le previsioni di significativa riduzione dei governi in carica, il debito non ha mai invertito la traiettoria di crescita, anzi il problema si è accentuato (secondo i programmi del Governo Monti il debito doveva scendere a 114,4% in rapporto al PIL già nel 2015); e che il livello medio del nostro saldo primario negli ultimi venti anni è stato di +2,45% e negli ultimi dieci dell’1,26%.

Appare empiricamente coerente quindi affermare che portare l’avanzo primario ben oltre il 4% e lasciarlo stabile almeno per venti anni (così come il rispetto del fiscal compact vuole imporre) non è un obiettivo molto sfidante; più semplicemente, a ben guardare l’evoluzione del contesto globale, sembra proprio una pia illusione.

Peraltro, se realizzato, non costituirebbe affatto una garanzia di successo se il valore del PIL nominale non cresce adeguatamente.

Per corroborare ulteriormente tali argomentazioni proviamo a rispondere a questi quesiti:

a)quali Stati in Europa, assimilabili al nostro per dimensione, hanno sperimentato negli ultimi venti anni situazioni come quelle previste nei programmi economici e finanziari che vengono imposti al nostro paese?

b)La produzione di alti avanzi primari garantisce migliori performance a coloro che producono sistematicamente disavanzi?

c)Quali sono le principali implicazioni connesse ad una politica di finanza pubblica mirata alla produzione di alti avanzi primari in qualunque contesto per periodi molto lunghi?

Ed ecco le risposte.

Nessun grande paese europeo dal 1995 ad oggi ha registrato avanzi primari come quelli che l’Italia dovrebbe conseguire: la Germania ha avuto un saldo primario medio dello 0,59% ed una sola volta ha superato il 4%; la Francia ha avuto un saldo primario medio negativo di 0,91%, ha registrato avanzi primari solo sei volte e la sua punta massima è stata di 1,5%; la Spagna ha avuto un saldo primario medio negativo di 0,92%, dieci volte ha registrato un avanzo con una punta massima del 3,8%; il Regno Unito ha avuto un disavanzo medio dell’ 1,43%, solo cinque volte ha registrato un avanzo con un picco del 3,8%.

Negli ultimi sette anni (dal 2008 al 2014) tra i grandi paesi europei presi in esame solo Italia e Germania hanno segnato un saldo primario medio in avanzo, rispettivamente di 1,17% ed 1,32%, mentre la Francia ha registrato un disavanzo medio primario del 2,5%, la Spagna del 5,7% ed il Regno Unito del 4,9%. L’Italia tuttavia ha visto peggiorare il rapporto debito/PIL del 33%, un livello pari a quello della Francia. Con la sostanziale differenza che l’Italia in questo arco temporale ha perso 10 punti di PIL e la Francia nessuno, mentre tutti gli altri hanno avuto dinamiche del PIL ampiamente migliori delle nostre.

Gli alti avanzi primari, per i paesi che hanno un’altissima incidenza del peso degli interessi sul totale della spesa pubblica, implicano la necessità di generare flussi di entrate nelle casse dello Stato che siano sempre di elevato livello in rapporto al PIL; sempre crescenti per fronteggiare la crescita inerziale della spesa pubblica; e sempre in grado di eccedere il livello delle spese primarie nella misura necessaria a raggiungere il saldo di finanza pubblica compatibile con la strategia adottata (pareggio di bilancio). In altri termini risulta di fatto inibita o comunque fortemente limitata in forma permanente la capacità di affrontare alla radice i deficit strutturali di uno Stato mediante un volume di investimenti adeguato allo scopo.

Di conseguenza, se si assume (come è corretto che sia) che lo sviluppo di un paese dipende da tre fattori basici: l’innovazione, la produttività e la demografia, e che senza uno sviluppo di spessore non esiste la possibilità di generare flussi tendenzialmente crescenti di entrate utili ad alimentare un circolo espansivo virtuoso, allora dobbiamo necessariamente giungere ad affermare che gli alti avanzi primari, soprattutto in fasi di bassa crescita mondiale, bassa inflazione e bassi tassi di incremento del debito privato, non sono compatibili con i livelli di sviluppo di cui un paese come il nostro ha sotto vari profili bisogno.

Infatti per consentire alle imprese di investire in ricerca e innovazione occorrono incentivi fiscali incisivi, robusti investimenti pubblici che creino un ambiente più favorevole alle innovazioni ed una tassazione che assorba una componente moderata dei profitti realizzati; una finalità irrealizzabile se le aliquote non possono essere compresse strutturalmente a parità di base imponibile.

La crescita della produttività richiede in primo luogo investimenti infrastrutturali (interni ed esterni alle attività produttive) molto consistenti e capaci quindi di creare un ambiente per le imprese di elevata agibilità, sempre fortemente supportata con convinzione; un obiettivo non conseguibile in un quadro di finanza pubblica che non può far crescere la spesa pubblica produttiva.

Lo sviluppo demografico, idoneo a garantire un livello di benessere sociale stabile, è strettamente dipendente da politiche per la famiglia, politiche di crescita dei redditi disponibili e politiche attive per il lavoro incompatibili per chi è costretto a tenere su livelli alti i saldi tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito.

Ecco perché gli obiettivi di riduzione del debito di medio e lungo termine seguendo le politiche di finanza pubblica imposte dall’Europa hanno bassissime probabilità di essere realizzati. Soprattutto in un contesto di bassa crescita globale, bassa inflazione e bassi tassi di incremento del debito privato.

Tuttavia poiché la riduzione del peso del debito pubblico e degli oneri che produce è un obiettivo che va comunque perseguito, per evidenti ragioni di vulnerabilità della situazione attuale, di aumento dell’efficacia della politica fiscale e come strumento di stabilizzazione e di eliminazione dei fenomeni di spiazzamento degli operatori privati, diventa necessario individuare una strategia alternativa a quella attualmente perseguita che sia capace di mettere chi governa nelle condizioni di attuare una politica fiscale fortemente e strutturalmente espansiva, operando comunque         nel quadro dei vincoli europei. È questa, l’unica strada che può realmente cambiare le prospettive del nostro paese (le proposte sono contenute nel libro Cambio di Strategia – edito Sole 24Ore).