Elevate riserve liquide delle imprese rendono sterili gli interventi espansivi di politica monetaria. A rilevarlo recenti studi condotti da istituzioni private. Che mostrano come soprattutto i gruppi americani siano inclini al fenomeno. Talvolta per prudenza, talaltra per sottrarsi alla tassazione.
Lo scenario economico globale continua a presentarsi fragile. Soprattutto per i paesi a sviluppo più avanzato il superamento dell’impasse economica non sembra vicino.
Una delle questioni sulle quali ci si interroga è quella dell’ampia inefficacia degli interventi espansivi di politica monetaria, fenomeno che ha molteplici cause. Tra esse merita attenzione quella della frequente propensione delle imprese (soprattutto grandi) a detenere un ampio ammontare di liquidità finanziaria.
L’interesse per questo aspetto della dinamica delle imprese nasce da due considerazioni: la prima è la dimensione assunta dal fenomeno; la seconda è la constatazione che alcuni andamenti congiunturali (deciso risveglio degli investimenti non residenziali negli Stati Uniti, forte crescita a livello globale delle operazioni di fusione e acquisizioni, etc.) potrebbero indicare un suo possibile ridimensionamento.
Quando si parla di riserve di liquidità delle imprese si fa riferimento ad un aggregato che, oltre alla cassa, comprende i titoli con scadenza particolarmente ravvicinata e con un rischio emittente praticamente nullo (buoni del tesoro, certificati di deposito, etc.).
Tranne che nel caso di qualche realtà nazionale, per lo studio del fenomeno ci si deve riferire ad analisi condotte da istituzioni private, analisi comunque parziali e basate su dati che si fermano al 2013. Una recente ricerca della società di consulenza Deloitte [Deloitte Review, The cash paradox, n. 15, 2014] ha quantificato il fenomeno assumendo come riferimento le società non finanziarie incluse nell’indice S&P Global 1200. Si tratta di poco meno di mille imprese localizzate in tutte le aree del mondo. Le indicazioni contenute in questo studio sono sostanzialmente in linea con quanto evidenziato da precedenti indagini.
Nel 2000 le riserve liquide delle società non finanziarie inserite nell’indice S&P Global 1200 ammontavano a un importo di circa $1.200 mld, importo salito nel 2008 al di sopra di $2.000 mld, con una crescita annua quindi inferiore al 7%. Negli anni successivi la crescita accelera sensibilmente arrivando a sfiorare il 12% in media annua. In termini assoluti tra fine 2008 e fine 2013 le riserve liquide di queste società aumentano di circa $1.500 mld, portandosi oltre i $3.500 mld.
La dimensione globale e forse anche la dinamica del fenomeno sono quasi certamente superiori a quanto appena indicato. In alcuni casi, in effetti, fonti nazionali segnalano importi ben più rilevanti di quanto evidenziato dalla ricerca citata: è il caso delle società canadesi che deterrebbero riserve liquide per $630 mld o anche quello della Corea del Sud ove le riserve liquide dei gruppi maggiori si aggirerebbero intorno a $400 mld.
Nell’insieme negli anni post-crisi 2 trilioni di dollari aggiuntivi (forse anche di più) sarebbero stati trattenuti dalle tesorerie delle grandi imprese (dead money) piuttosto che impiegati per finanziare attività produttive. Se si considera che l’insieme degli interventi monetari espansivi decisi dalle autorità dopo il 2008 è stimabile in $7-10 trilioni si ha chiara l’importanza del fenomeno qui esaminato.
Attingendo ancora all’indagine prima citata, le imprese statunitensi sono quelle che contribuiscono in misura più importante al fenomeno sia sotto il profilo delle consistenze (45% nel 2013) sia sotto il profilo dinamico (nel quinquennio 2008-13 la loro crescita cumulata è di quasi 30 punti percentuali superiore a quella media delle società dell’indice). I gruppi giapponesi pesano per il 14%; i gruppi europei (francesi, tedeschi e inglesi) contribuiscono complessivamente per il 18%, con un rilievo abbastanza simile. Nel quinquennio 2008-13 la crescita di queste riserve è quasi assente in Svizzera, complessivamente modesta per le imprese tedesche e francesi (la metà circa di quella media dell’aggregato); ha una significativa intensità oltre che per le imprese statunitensi anche per quelle inglesi si presenta esplosiva in paesi come la Corea del Sud (oltre il 25% l’anno).
Sotto il profilo del settore di attività quello di gran lunga il più importante è individuato con l’acronimo Tmt (Technology, media & telecommunication). Si sostiene che in questo caso una più forte prudenza finanziaria è indotta dalla facile reversibilità dei successi aziendali. In termini di consistenze, il peso di questo settore (31%) è superiore a quello dell’intero manifatturiero (29%).
Una circostanza che emerge da tutte le analisi è che queste riserve liquide non sono distribuite in modo equilibrato tra le imprese. Il 32% delle società non finanziarie considerate nell’indice S&P Global 1200 risulta titolare dell’81% delle riserve totali (quasi $2.900 mld), mentre al restante 68% sarebbero attribuibili $600 mld. La dinamica di queste due consistenze nel quinquennio 2008-13 risulta piuttosto diversa, con una crescita complessiva del 78% nel primo caso, del 52% nel secondo.
Merita sottolineare che le imprese incluse nei due insiemi mostrano negli anni post-crisi finanziaria una propensione ad investire ben diversa: le prime (quelle che detengono le riserve più ampie) investono meno di quanto da loro evidenziato in precedenza e riservano una quota minore degli investimenti allo sviluppo dell’attività; indicazioni di segno opposto per le imprese con minori riserve liquide in bilancio.
Sul mantenimento di più ampie risorse finanziarie liquide da parte delle imprese tutti concordano. L’intensificazione del fenomeno è posizionabile nel 2008-09 quando il funzionamento dei circuiti finanziari risultò particolarmente alterato. Sorprese e preoccupate da questa evoluzione dei mercati finanziari molte imprese si sono da allora orientate verso una gestione finanziaria decisamente più prudente, con un rilevante aumento delle riserve liquide.
Sul successivo sviluppo del fenomeno l’accordo è meno ampio. Una parte degli osservatori attribuisce un ruolo importante al comportamento delle società statunitensi con una rilevante presenza internazionale: per evitare una tassazione del 35% dei profitti prodotti all’estero, queste società ne avrebbero evitato il rimpatrio, procedendo parallelamente ad incrementare il loro indebitamento per finanziare le iniziative sul mercato statunitense (pagamento dividendi, riacquisto di azioni proprie sul mercato (share buy-back)1 , investimenti in attività produttive, etc.). L’accumulo di profitti all’estero e il parallelo incremento dell’esposizione debitoria in patria è stato definito synthetic cash repatriation. Che questo tipo di percorso finanziario abbia avuto
una certa diffusione tra le imprese statunitensi è testimoniato da alcuni casi aziendali documentati dalla stampa; molto difficile è tuttavia stabilire quanto parte della crescita delle riserve liquide delle imprese statunitensi possa essere attribuito a questo tipo di comportamenti.
1 Secondo un recente articolo del Financial Times (15 ottobre 2014) le operazioni di riacquisto di azioni proprie da parte delle imprese americane a partire dal 2009 ammonterebbe a $2 trilioni, dei quali $1,6 dal 2011. Dopo un’intensificazione a cavallo tra il 2013-14, il fenomeno avrebbe registrato segnali di indebolimento verso metà 2014. Tra le imprese dell’indice S&P 500, la quota di cash flow assegnata a queste operazioni rispetto al 2002 sarebbe raddoppiata (al 30%) mentre quella impiegata in investimenti sarebbe parallelamente diminuita di oltre 10 punti percentuali (al 40% circa).