Un'agenda chiara per contare in Europa. Ma anche per affrontare la scommessa del nuovo patto di stabilità, per aiutare le imprese a far crescere nuove tecnologie e le banche a digerire l'innovazione. Il pensiero e lo stile del nuovo governatore
«Non riesco a credere che un Paese con la nostra storia, le nostre risorse, le nostre potenzialità… non possa oggi superare difficoltà che sono sotto gli occhi di tutti, su cui tutti concordiamo». È il solo momento in cui l’aplomb di Fabio Panetta, il registro asettico su cui il suo primo discorso delle Considerazioni finali si è attenuto per 26 pagine, rompe in un appello.
Chi sono questi “tutti” a cui fa riferimento il governatore? Forse la platea di politici, banchieri e imprenditori che lo ascoltano, occhi sullo stampato delle Considerazioni, nel salone di Banca d’Italia? O i due ex governatori presenti, Mario Draghi e Ignazio Visco, che invece quel testo non hanno bisogno di leggerlo? O il governo, nei rappresentanti presenti?
In realtà quello che Panetta vuole offrire, è un’“agenda chiara”, e lo dice. Un’agenda per crescere e per contare in Europa. Per contrastare il “rischio di irrilevanza” a cui i mutati equilibri geopolitici ci condannano. Di questi tempi, non c’è niente di più politico. E quel “tutti” potrebbe essere un richiamo a una nuova unità collettiva, a un risveglio civile che superi le contrapposizioni per una finalità superiore. Sarebbe bellissimo.
Poi viene un dubbio. Che il rivolgersi a tutti non sia piuttosto un modo per evitare di prendere di petto l’unico interlocutore plausibile, il governo, indirizzando a Palazzo Chigi la sua agenda? Il dubbio è alimentato oltretutto dall’avviso esplicito degli uomini di Bankitalia: «Quello del governatore non è un manifesto politico», mettono le mani avanti. E per non rischiare che qualcuno maliziosamente strumentalizzi qualche dato, qualche riferimento, l’analisi di questa relazione sceglie di avere “profondità pluriennale”, dal 2019 al 2023, perché un’analisi troppo circoscritta all’anno passato risulterebbe “fuorviante”.
Vediamo quindi come il governatore è riuscito a dare nella sua agenda messaggi forti senza inimicarsi nessuno, e offendo comunque alcuni assist ben mirati.
Il primo assist arriva a Enrico Letta e a Mario Draghi, incaricati speciali per suggerire le ricette per una Ue più forte e competitiva. Rafforzare l’autonomia strategica, aumentarne l’integrazione, ridurre la dipendenza dalla domanda estera, rafforzare il mercato unico nei settori strategici non integrati (come le Tlc, l’energia, la finanza), stimolarne la capacità di innovare decidendosi a investire sui settori all’avanguardia come la robotica e l’intelligenza artificiale, il tutto unito all’aspirazione a un bilancio comune, a un mercato dei capitali integrato (con un titolo pubblico europeo privo di rischio) e con il completamento dell’Unione bancaria, sono le azioni chiave da mettere in campo. Messe nero su bianco nel Rapporto Letta appena uscito, echeggiate nelle anticipazioni del prossimo Rapporto Draghi. E Panetta concorda.
Un altro assist lo offre al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, crocifisso spesso dalla maggioranza che lo sostiene per le scelte di rigore che è obbligato a fare, stretto com’è tra un debito pubblico monstre e le nuove regole del patto di stabilità.
Su questo fronte Panetta offre il suo viatico: la riforma del governo economico europeo “non ha introdotto la necessaria semplificazione delle regole”, punzecchia, e “in mancanza di avanzamenti verso una politica di bilancio comune, qualunque riforma che intervenga solo sulle politiche nazionali rischia di far apparire le regole europee sbilanciate verso il rigore e poco attente alle esigenze dello sviluppo”. Quindi attenti a mettere dietro alla lavagna singoli paesi.
Per avere successo, non si dovrà solo pensare alla disciplina fiscale, ma al “fine ultimo di favorire la crescita”. Il che vuol dire che il mestiere di Giorgetti sarà quello di mettere il debito in una traiettoria stabilmente decrescente, certo, facendo scelte “dal lato della spesa” e “dal contrasto all’evasione fiscale”, ma anche offrendo qualche sostegno all’economia.
Nelle vesti di governatore, Panetta non smette di battere sul tasto che ha accompagnato i suoi ultimi interventi a Francoforte, nel board della Bce: è venuto il momento di tagliare i tassi. “Dobbiamo evitare che la politica monetaria diventi eccessivamente restrittiva, spingendo l’inflazione al di sotto dell’obiettivo simmetrico della Bce. Da settembre, quando aumentammo per l’ultima volta i tassi, i rendimenti reali a breve termine sono saliti di quasi mezzo punto percentuale”, osserva oggi. Meglio un’azione tempestiva e graduale che tardiva e precipitosa, ammonisce quindi (un po’ alla Catalano). Aggiungendo anche un’allerta sulle mosse della Fed: un suo orientamento più restrittivo delle attese potrebbe “determinare un deprezzamento del cambio dell’euro”. La Bce deve stare in campana.
Inevitabile, infine, leggere le pagine di analisi economica del governatore sull’Italia senza affiancarle alla narrazione del paese che arriva dal governo di Giorgia Meloni per celebrare i propri successi su crescita, occupazione, retribuzioni.
L’economia italiana è quella con la minor crescita del Pil per abitante nell’ultimo quarto di secolo, dice Bankitalia. Eppure tra il 2029 e il 2023 la ripresa è stata superiore alle previsioni: più 3,5 per cento contro l’1,5 della Francia e lo 0,7 della Germania. Quanto ai salari, il reddito reale disponibile delle famiglia è fermo al 2000 (in Francia e Germania è aumentato di oltre un quinto). E a fine 2023 le retribuzioni orarie in termini reali risultavano ancora inferiore del 9 per cento a quelle di fine 2019 (questo dato è contenuto nella Relazione annuale, non nelle Considerazioni).
Sempre nel lasso di tempo ‘19-’23 l’occupazione è aumentata di 600 persone, peccato che la partecipazione al mercato del lavoro resta inferiore alla media dell’eurozona dell’8 per cento, che oltre mezzo milione di giovani siano scappati all’estero, che il tasso di occupazione femminile sia ancora al 52,5 per cento. E pensare che basterebbe raggiungere i tassi di occupazione medi dell’area euro per controbilanciare i micidiali effetti del calo demografico.
Panetta valorizza poi molto il ruolo dell’impresa privata. Che è stata bravissima nell’approfittare delle agevolazioni (come la legge Calenda) introdotte per adottare nuove tecnologie e aumentare la produttività e l’impiego di lavoratori qualificati. Ora c’è bisogno di una nuova potente cura di innovazione, che non può venire soltanto utilizzando tecniche realizzate altrove. Ecco dunque la ricetta di Bankitalia: la legge che ha introdotto nel 2015 il credito d’imposta per la ricerca così com’è non basta. Occorre alzare l’aliquota dal 10 per cento al 20, il valore medio dei paesi dell’Ocse: costerebbe un miliardo l’anno, ma spingerebbe la crescita della spesa in ricerca del 15 per cento. Mentre investitori istituzionali come assicurazioni e fondi pensione potrebbero utilmente investire parte dei propri attivi nel venture capital per stimolare nuove occasioni imprenditoriali.
Il tema della tecnologia investe in pieno anche le banche. Anzi, “sarà soprattutto la tecnologia a influenzare l’attività degli intermediari”, dice il governatore. Gli investimenti in tecnologie innovative realizzati nel complesso dagli intermediari italiani sono quadruplicati dal 2017, ma sempre meno di quello che fanno i concorrenti europei. È un cammino che presenta insidie, come dimostra l’aumento degli “incidenti cibernetici” segnalati dalle banche, ma è un percorso di recupero di efficienza da cui non si torna indietro.
Nell’inevitabile confronto che gli esordienti devono subire, si può forse dire che il nuovo governatore abbia un tono meno ex cathedra del predecessore Visco, dal quale traspariva una cultura poliedrica. Eppure Panetta ha già chiarito il suo registro personale: asciutto, concreto. Da amministratore delegato.