OUTLOOK S&P
La spesa pubblica scende in campo

Che cosa ci aspetta dopo un 2022 sopra le attese? Nel recentissimo Outlook di S&P per l'Eurozona si prevede crescita zero per il 2023. Con la sola spesa pubblica ad aiutare la crescita

Paola Pilati

Saranno solo gli investimenti pubblici a sostenere l’economia dell’Unione europea nei prossimi due anni. Il NextGeneration EU, che all’epoca del suo lancio avrebbe dovuto mettere le ali ai piedi alla ripresa del continente, ora serve a tenerla sulla la linea di galleggiamento. Questa la previsione di S&P Global ratings nel suo Economic Outloook dell’Eurozona per il primo trimestre del 2023, che però fa anche un bilancio per la chiusura dell’anno in corso e spinge l’occhio fino a tutto l’anno prossimo.

La visione complessiva è incline al pessimismo, visti i fattori che oggi condizionano l’Eurozona, dall’aumento dei tassi dalla guerra in Ucraina ai prezzi energetici e alla possibile spirale delle richieste di aumento delle retribuzioni. Ma gli stessi analisti di S&P suggeriscono che l’orizzonte potrebbe anche schiarirsi, non certo da subito ma a metà del 2023, ammesso che l’apparato produttivo europeo si dimostri più resiliente e reattivo del previsto.

Sulla base dei fattori a disposizione, però, la crescita del Pil nel 2023 stimata dall’Outlook è ferma al palo, cioè è pari a zero. Cancellato persino quello 0,3% previsto in precedenza. Una frenata a tavoletta, visto che il 2022 si dovrebbe chiudere con un più 3,3%: da gennaio a giugno dell’anno successivo il crollo del pil sarà dell’uno per cento, e sale vertiginosamente la probabilità di una recessione (che il modello prevede al 70% contro il 47% di tre mesi fa). Solo dopo la metà dell’anno si intravede una ripresina, che porterebbe a una crescita dell’1,4% nel 2024 e dell’1,5% nel 2025. Un futuro tutt’altro che fantasmagorico.

Quali sono i fattori chiave che giustificano tanto pessimismo? Innanzitutto l’aumento dei tassi e dell’inflazione, che ridurranno sia i profitti che gli investimenti delle imprese, e si rifletteranno negativamente sul mercato del lavoro: la disoccupazione nell’eurozona risalirà al 7% dopo essere scesa al valore record del 6,7% nel 2022. A cascata, anche l’investimento nel settore residenziale perderà slancio, togliendo energia alla crescita. E non servirà a stimolarla neanche una ripresa del commercio estero, né il deprezzamento del 7 per cento dell’euro sul dollaro. Neppure questo fattore riuscirà a contrastare l’effetto negativo dei costi energetici.

E dire che il 2022 è andato oltre le attese. La produzione industriale è cresciuta nel terzo trimestre su quello precedente, in particolare nel settore automotive e farmaceutico, che hanno segnato un più 8 e più 6 per cento rispettivamente, e pesano insieme il 19 per cento del valore aggiunto industriale. Nonostante i colli di bottiglia ancora esistenti nei rifornimenti, e i costi sempre alti dei noli e dei trasporti, l’industria europea ha dichiarato – nel survey della Commissione europea – che ha cinque mesi di produzione assicurata. Ad altri settori industriali più dipendenti dalla materia prima energetica è andata peggio, perché la produzione è viceversa crollata del 4%.

Tornando ai costi energetici, il report di S&P offre un dato sulla perdita di competitività dell’Europa rispetto agli Usa dovuto proprio a questo fattore, che ha colpito soprattutto i settori industriali energy intensive: si tratta di una perdita di 4 punti percentuali di Pil, che si aggiunge alla perdita di quota di mercato subita durante la chiusura del covid che non si sa, a questo punto, quando potrà essere recuperata.

Un’occhiata più da vicino al mondo del lavoro descrive gli effetti di questo tono economico così debole sugli stipendi, fattore chiave per sostenere i consumi. Ebbene, le retribuzioni sono destinate a salire, scrive il report. Se le richieste di incrementi si sono finora mantenute modeste, così non sarà nell’anno a venire. Anzi, l’incremento atteso è del 5%, seguendo la scia dell’incremento recentemente contrattato in Germania dall’industria metalmeccanica. Ma questo, dicono gli analisti di S&P, non dovrebbe avere effetti sull’inflazione.

Sullo sfondo di questo scenario, ma certo non fattore secondario, c’è la Bce e il processo di normalizzazione della sua politica monetaria. Tra dicembre e febbraio si prevedono nuovi aumenti dei tassi (prima 50 punti, poi 25), ma dovrebbero essere gli ultimi. Dopo, la banca centrale dovrebbe frenare rispetto a ulteriori interventi, e vedere quali effetti ha prodotto sull’inflazione. Non si fermerà invece il processo di dimagrimento del suo bilancio. Ci sono i pagamenti dei fondi TLTRO per 2,1 trilioni, che le banche hanno già iniziato a restituire; ci sono i bond acquistati nelle varie operazioni di sostegno all’economia con il quantitative easing, per 5 trilioni, di cui si dovrà pian piano liberare ma senza provocare sconquassi sui mercati. Anche se può sempre scegliere di venderli, l’opzione che sembra più verosimile è quella di attendere la loro scadenza naturale e non rinnovarli. Poiché la maturity media del suo portafoglio è di sette anni, questo vorrebbe dire che l’attesa consentirebbe una transizione indolore. Ad ogni modo, gli analisti prevedono che nella riduzione del bilancio la Bce si limiterà a una cifra di 3 trilioni in tre anni, arrivando a fine 2026 con un bilancio di 6 trilioni, solo uno sopra il livello pre-covid.

L’unico puntello all’economia, uno scenario così poco entusiasmante, è come si diceva la spesa pubblica. S&P si aspetta un aumento degli investimenti finanziati dalle casse degli Stati, che andrà ad aggiungersi all’incremento che c’è già stato negli ultimi anni, dal 2,7% del Pil al 3,1% del 2022. A questo si aggiungerà il NextGeneration EU, che con i suoi prestiti e le quote a fondo perduto integrerà sostanziosamente la spesa dei governi.