RAPPORTO ASSONIME
La sostenibilità entra in Borsa

L'adozione e il rispetto delle  regole di corporate governance diventano sempre più radicati tra le società quotate. Che hanno capito che guidare l'impresa con i criteri ESG conviene

P.P.

Il checkup sulla corporate governance delle società quotate italiane, eseguito ogni anno dall’Assonime, restituisce per il 2023 un quadro in netto miglioramento quanto a rispetto delle raccomandazioni Ocse e degli assetti del governo societario, sia in termini di trasparenza delle policy interne – dalle remunerazioni dei top manager ai cosiddetti “interlocking”, il cumulo di incarichi in diverse società in capo a una sola persona – sia nel promuovere il dialogo con i propri investitori.

Il Rapporto registra anche un’importante evoluzione delle società quotate: l’introduzione del concetto di sostenibilità come obiettivo sottostante tutte le attività dell’impresa, non solo tra quelle grandi (che in media hanno realizzato gli obiettivi al 60%), ma anche tra le medie e le piccole (che li hanno realizzati al 57%), e nei rapporti con gli shareholder e gli stakeholder. I fattori ESG sono diventati quindi gli elementi che guidano i piani strategici, acquistano il valore di un business model e anche un parametro su cui calcolare parte della remunerazione variabile dei manager.

Nel complesso insomma il grado di corporate governance, misurato con l’indice sviluppato da Assonime in base al rispetto del Corporate Governance Code,  è arrivato al 77% dal 61% del 2019: le grandi società toccano l’83%, le piccole il 71, quelle finanziarie sempre l’83% e le non finanziarie il 76%.

È aumentata la trasparenza sulle strutture di remunerazione dei vertici delle società, anche se qui dei miglioramenti si potrebbero ancora fare: benché tutte le società abbiano adottato il sistema di retribuzione misto – fisso e variabile – il dettaglio sul peso e sui meccanismi del primo e del secondo sono ancora un tema riservato per la metà delle imprese.

Quanto al livello delle remunerazioni, quella del Ceo è di 4,2 milioni di euro nelle grandi società quotate al FTSE Mib, di 1,9 nelle medie (Mid Cap), di 0,7 nelle piccole (Small Cap). È in media suddivisa per un 41% con una quota fissa, il 36 con una quota variabile tra bonus e profit sharing, il 21 parametrato al valore del titolo in Borsa, il 2 % in fringe benefit.

Questo quadro in evoluzione positiva contrasta però con l’involuzione del nostro mercato azionario, dove sono diminuite le società quotate e anche la capitalizzazione complessiva. Risultato questo di un doppio processo: molti che si erano quotati hanno deciso di uscire dalla Borsa, mentre le nuove quotazioni si sono assottigliate; crescono poi le società che hanno preferito traslocare su mercati borsistici più dinamici. Risultato, dalle 228 società quotate all’Euronext Milano nel 2014, alla fine del 2022 se ne contavano 202. La perdita di capitalizzazione è stata di 55 miliardi di euro.

C’è poi il fenomeno del “forum and regulatory shopping” cioè del trasloco delle sede legale delle società in paesi dove le regole imposte dall’autority di supervisione – da noi la Consob – sono meno rigide e stringenti e i sistemi legali sulla governance più flessibili, soprattutto sull’uso del voto multiplo.

In sostanza, l’Italia ha tradotto nel proprio ordinamento le strutture regolatorie europee, che puntavano ad armonizzare i diversi mercati, dando più importanza alle istanze super-protettive piuttosto che quelle migliorative della competitività.  Insomma, l’armonizzazione si è limitata al “gold plating”, mentre sotto restavano le vecchie regole nazionali.  

Un difetto che la recente Legge Capitali si propone di superare, per esempio introducendo la possibilità del voto multiplo fino a un massimo di 10 voti per azione, e dando il via al completamento del Testo unico della finanza con l’obiettivo di renderlo più attuale entro la prima metà del 2025. Dovremo aspettare almeno altri due rapporti Assonime per capire se l’obiettivo sarà raggiunto.

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