approfondimenti/politica economica
I vent'anni della valuta
La sfida euro-dollaro è diventata politica
Paola Pilati

L’euro ha compiuto 20 anni il primo gennaio. Un compleanno che lo trova in forma oppure no? A sentire i cittadini europei, secondo un survey realizzato nell’autunno scorso, l’euro è stata una buona cosa per il 74 per cento di loro. A dare retta ad Ashoka Mody, economista di Princeton, la moneta unica, invece, si è dimostrata una “Euro Tragedy”, come l’economista ha titolato il suo recente libro.

Se una moneta è lo specchio del successo di un’economia (l’area euro rappresenta il 12 per cento del Pil mondiale), a una prima occhiata si può dire che nei primi dieci anni di vita l’euro abbia dimostrato molta più energia di quanta abbia avuto nella sua seconda decade, quella della grande crisi, in cui ha perso slancio e brillantezza.

All’inizio, eliminare il problema del cambio nell’area europea, con la lunga stagione dei tassi a buon mercato di cui beneficiava una platea di clienti che prima non potevano accedervi, ha dato effervescenza all’infanzia dell’euro. Poi, il boom del credito si è scontrato con la dura realtà quando è esplosa la recessione del 2008. Che l’Europa sta ancora pagando cara, con le sue banche, e con una crescita esangue.

A questo punto come ci si può immaginare l’entrata nella fase adulta della nostra moneta?

Se si vuole capire innazitutto quanto sia riuscito a fare concorrenza alla valuta più forte del pianeta, il dollaro, e se l’abbia raggiunta nelle transazioni internazionali, la risposta va cercata nei dati.

Sebbene l’area euro abbia nel commercio internazionale più o meno lo stesso peso degli Usa e del terzo grande player mondiale, la Cina, con circa il 15 per cento del mercato (https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/International_trade_in_goods#The_three_largest_global_players_for_international_trade:_EU.2C_China_and_the_USA), l’uso dell’euro nel trading resta dietro al dollaro.

«L’euro deve diventare l’immagine, e lo strumento, di una Europa più forte», ha rivendicato pochi mesi fa Jean-Claude Junker di fronte al Parlamento di Bruxelles, riflettendo sul fatto che l’80 per cento dell’import di energia nel Vecchio continente è pagato in dollari, sebbene solo il 2 per cento di quella energia venga dagli Usa.

Germania e Francia individuamente, e l’intera area euro, fatturano metà dei loro scambi commerciali fuori dell’area Ue in dollari. L’80 per cento dell’importazioni denominate in dollari nel mondo non tocca neanche il territorio degli Usa, viaggia per altre strade, ma resta nella sua area virtuale di influenza. Per giustificare l’uso dell’euro, il commercio deve invece coinvolgere almeno un paese europeo. Senza considerare che di solito gli scambi godono di una garanzia, e se il trading non è in dollari quella garanzia costa di più in termini di rischio valuta.

Eppure come peso nel complesso dei pagamenti globali, l’euro non è messo male, anzi. Ha raggiunto una quota di tutto rispetto, il 36 per cento, a pochi passi dal dollaro, che sta al 40 per cento.

L’euro tuttavia mostra il suo tallone d’Achille nelle transazioni finanziarie internazionali. E questo non può che dipendere dalla stabilità dell’area euro dal punto di vista finanziario, dall’affidabilità che ispira nel contesto mondiale. Qui il cammino è ancora lungo, come dimostra il fatto che come valuta di riserva non supera il 20 per cento (ma è cresciuto di un punto), contro il 62 del dollaro.

Nel complesso, come ha ammesso l’ultimo rapporto della Bce sul ruolo dell’euro (https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/ire/ecb.ire201806.en.pdf), l’indice che sintetizza il peso internazionale dell’euro lo raffigura inchiodato al minimo storico.

Il mondo gli investitori in cerca di “safe asset”, cioè quegli asset che hanno più probabilità di mantenere il valore nel tempo per essere utilizzati in futuro, oggi si rivolge al dollaro, sotto forma di T-bond o corporate bond, non all’euro. Resta insomma fortissimo l’esorbitante privilegio di finanziarsi in tutto il mondo da parte degli americani, dal governo alle imprese.

Nel corso del 2018 il dollaro ha ancora una volta dimostrato il suo incontrastato dominio sulla scena. Con performance da super-dollaro, ha condannato l’euro a un tasso di cambio che, secondo gli analisti, lo rende sottovalutato rispetto al suo “fair value” di 1,25/1,35. Mentre il dollaro è sopravvalutato del 12/14 per cento.

Un primo segnale di inversione del trend, per l’euro, potrebbe essere l’aver riacciuffato proprio in questi giorni quota 1,15. Molto dipenderà dalla politica monetaria americana, che negli ultimi tempi è apparsa più prudente e attendista rispetto ai prossimi rialzi dei tassi. Ma anche daTrump.

Come fa notare Barry Eichengreen sul Ceps (https://www.ceps.eu/publications/euro’s-global-dreams-and-nightmares#_ftn3), Trump ha iniziato a usare la valuta per i suoi obiettivi di politca estera. Per esempio, l’amministrazione Usa ha proposto di mettere sotto controllo attraverso la Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunications (SWIFT), le transazioni tra aziende europee e l’Iran, accusandole di disturbare il regime di sanzioni unilaterali degli Usa. Il sospetto è che il passo successivo possa essere il diniego delle banche americane ad approvvigionamento di dollari a chi fa affari con Teheran.

Anche le mosse di Trump contro gli accordi commerciali internazionali fanno dubitare che gli Usa continueranno a ungere le ruote degli scambi mondiali, mercantili e finanziari, con l’approvvigionamento facile del biglietto verde.

A quel punto la mano della partita potrebbe passare all’Europa, e alla sua valuta da poco maggiorenne. Una grande occasione. Ma con una questione di fondo: quali prospettive convincenti offre la Ue al resto del mondo che nel terzo decennio dell’euro saprà rinforzare l’economia continentale, e realizzare le riforme – dal completamento della capital market union alla creazione di un fondo per la stabilizzazione in caso di shock – che mettano l’Unione in sicurezza?

La risposta, più che economica diventa politica. “L’ambizione di dare all’euro un ruolo più rilevante sui mercati globali incontra grossi ostacoli economici e politici”, scrivono Adam Tooze (Columbia University)e Christian Odendahl (chief economist al Centre for European Reform) (https://www.cer.eu/insights/can-euro-rival-dollar).

Innanzitutto, perché i requisiti per la crescita del ruolo dell’euro sono due: primo, un’ampia disponibilità di titoli europei che svolgano la parte dei “safe asset”. Secondo, una Bce che riconosca le sue responsabilità nei confronti nella comunità finanziaria globale. Ma entrambe le cose incontrano forti resistenze. Soprattutto a Berlino.

Ma è la mancanza di “safe asset” il grande handicap. E questa mancanza ha a che fare proprio con la politica fiscale che l’Europa si è data, basata sul fatto che il debito in rapporto al Pil debba scendere. Lo stock di Bund tedeschi, tanto per dire, è destinato a ascendere al 42 per cento del Pil del paese. Negli Usa, quello di Tbond salirà al 117 del Pil. C’è insomma una scarsezza fisiologica di titoli appetibili da offrire. E qualsiasi altra soluzione, come l’idea di dare l’avvio a un mercato di Eurobond, è sempre stata trattata come un’eresia.

Infine c’è il ruolo della Bce. Saprà la banca centrale europea imitare la Fed nel ruolo che ha svolto in tutti questi anni, soprattutto in quelli di crisi? Saprà cioè diventare un prestatore di ultima istanza, come la Fed ha fatto non solo per le banche americane, ma anche per quelle europee e quelle di tutto il mondo nei momenti di necessità?

Difficile crederci, dicono i due economisti, se si torna con la memoria a cosa ha fatto la Bce durante la fase più critica della crisi. Nel 2008 alle banche polacche e ungheresi che chiedevano liquidità, la diede allo stesso prezzo e con le stesse garanzie di una banca commerciale.

Essere un banca centrale di una valuta di riserva le imporrebbe viceversa di aprire l’ombrello della sua liquidità senza riserve.

Non solo. Se l’euro spiccasse il volo come valuta internazionale, la domanda crescente di titoli in euro spingerebbe i tassi, già bassi, ancora più giù. E la valuta si apprezzerebbe. Il che per una economia basata sull’export non sarebbe una cosa buona.

In conclusione, per realizzare le aspirazioni dell’Unione Europea messe in chiaro da Junker, e diventare i banchieri del mondo come gli americani, dovrebbero cambiare molte cose. Per esempio, suggeriscono Tooze e Odendahl, servirebbe creare un fondo sovrano europeo finanziato dal debito pubblico. Ma è sicuramente all’euro che tocca il ruolo di grimaldello per conquistare la sempre più necessaria autonomia dagli Usa di Trump.