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La schizofrenia legislativa: dall'eccesso informativo alla reticenza. Il caso dell'etichettatura dei prodotti vinicoli

Nel nostro ordinamento il Codice del Consumo del 2005 tutela il consumatore prevedendo una serie di informazioni, che siano chiare e comprensibili, al fine di renderlo consapevole durante il processo di acquisto e di consumo. Spesso però il legislatore ha prescritto, sia nelle norme del codice sia nella normazione, primaria e secondaria, che le ha attuate, un eccesso informativo poco efficace. In questo quadro, il caso dei prodotti vitivinicoli costituisce una incomprensibile eccezione poiché, rispetto ai prodotti alimentari, per i quali sono previste ampie e rigorose indicazioni obbligatorie da apporre sulle confezioni, per i vini non è in alcun modo necessario che vengano specificati gli ingredienti, né le informazioni nutrizionali, né, soprattutto, la presenza di additivi. Qual è la logica sottesa a questa impostazione normativa?

Giuliano Lemme
Lemme

È noto il rilievo che la figura del consumatore sta assumendo nel moderno diritto dell’economia, e non solo. L’essere consumatore è divenuto una sorta di espansione dell’essere cittadino, e di fatto comporta il riconoscimento della cittadinanza sociale preconizzata da Marshall. A livello costituzionale, del resto, il richiamo all’utilità sociale ed alla sicurezza, dignità e libertà umana, contenuto nell’art. 41 Cost., ben si adatta, in una visione moderna, a fornire il corretto inquadramento della tutela del consumatore nei confronti dei soggetti “esterni”, individuata quale compito fondamentale dello Stato.

I consumatori sono dunque i referenti dell’altro grande attore del mercato, ossia il sistema imprenditoriale, e debbono essere protetti dalle indebite interferenze di questo. L’efficienza del mercato modernamente – ed eticamente – concepito predica dunque che le pubbliche autorità (legislatore, potere esecutivo, autorità indipendenti) pongano in essere un sistema di monitoraggio e di attuazione pratica della tutela del consumatore. Di converso, lo stesso principio della libertà imprenditoriale può essere visto come strumento di attuazione della medesima tutela, invertendo così uno dei canoni dell’economia classica.

Resta da stabilire, dunque, quali siano gli strumenti più efficaci per assicurare che effettivamente il ruolo dei consumatori all’interno del mercato non sia solamente quello di (inconsapevoli) destinatari del comportamento economico delle imprese, ma di veri e propri attori, in grado, dunque, non solo di essere oggetto della regolazione, ma di divenirne attivi protagonisti.

La risposta del nostro ordinamento, mutuata del resto da quello europeo, è stata di creare un corpus normativo autonomo, sostanziatosi nel Codice del Consumo del 2005. Uno dei punti centrali, qualificanti è stato quello di favorire l’elevazione del grado di consapevolezza del contraente debole, in modo che gli strumenti di tutela esterna siano affiancati dall’accrescimento della capacità di tutela interna nel rapporto contrattuale. In quest’ottica, la “educazione” del consumatore è stata identificata come strumento caratterizzante l’intera impostazione della tutela.

Tuttavia, questa impostazione mostra numerosi limiti, che si traducono in altrettanti profili di criticità.

Anzitutto, se è certamente vero che la maggior consapevolezza da parte del consumatore è utile nel prevenire che i diritti di questo vengano compromessi dal comportamento delle imprese, il rischio del paternalismo è dietro l’angolo. Non solo: gli stessi fini dell’educazione rischiano di poter essere indirizzati e condizionati dalle lobbies economiche, per non parlar del fatto che spesso, in nome della tutela, si rendono obbligatori (o si vietano) determinati comportamenti del consumatore, le cui libertà vengono dunque limitate.

Comunque sia, molte norme del Codice del consumo si concentrano sul profilo della informazione. L’obiettivo, come chiarisce lo stesso art. 5 del Codice, è una informazione “chiara e comprensibile”, volta ad assicurare la “consapevolezza” del consumatore.

Il problema è che, quando poi si vada dagli obiettivi al profilo pratico, si constata come il legislatore si sia fatto prendere da una specie di angoscia bulimica, prescrivendo, sia nelle norme del codice sia nella normazione, primaria e secondaria, che le ha attuate, un vero e proprio diluvio informativo di cui il consumatore diviene oggetto.

Questo punto, a mio avviso, costituisce una vera e propria criticità del sistema; forse, la più grave.

Le teorie di economia comportamentale hanno da tempo messo in guardia contro i pericoli dell’eccesso informativo, che rischia di svuotare di contenuto le nozioni comunicate al consumatore, vuoi per “sovraccarico” dei dati che questi può gestire, vuoi per impossibilità di distinguere i dati rilevanti da quelli irrilevanti. Non va dimenticato, infatti, che gran parte delle informazioni sono fornite sotto forma di dato tecnico, che non necessariamente il consumatore è in grado di comprendere nella sua portata.

Ma anche a voler trascurare questo primo aspetto, occorre considerare che l’industria, che ovviamente conosce le problematiche cognitive e le sfrutta naturalmente a proprio vantaggio, utilizza tecniche di comunicazione che enfatizzano determinate caratteristiche dei prodotti, portando i consumatori a sopravvalutarne gli aspetti positivi.

Ma non basta: l’eccesso informativo imposto dal legislatore si colloca all’interno di un altro fenomeno di “bulimia di dati”, ossia la information society nell’ambito della quale ogni informazione, non importa se verificabile o meno, se del tutto inventata o tragicamente vera, diviene accessibile ad un pubblico che riesce sempre meno a discriminare tra verità oggettiva ed invenzione mediatica più o meno volontaria. Questo fenomeno viene certamente sfruttato dalle imprese per alimentare miti, più o meno dotati di un fondo di realtà, che possano orientare i consumi, ma rischia di causare anche fenomeni di “paranoia” che inducono i soggetti a diffidare di qualunque informazione, persino di quelle palesemente vere, quando proveniente da una fonte ufficiale.

Si comprende, dunque, perché il quadro sia tutt’altro che chiaro, e perché la – legittima – aspirazione a colmare le asimmetrie informative e contrattuali sia destinata, forse, a rimanere tale.

In questo quadro, tuttavia, il caso dei prodotti vitivinicoli costituiscono una vistosa, quanto forse incomprensibile eccezione.

Il legislatore nazionale e quello europeo hanno sposato l’idea della contemporanea tutela di provenienza e qualità. Dopo un lungo evolversi della normativa (sostanzialmente, a partire dal 1963) il quadro attuale è quello derivante dalla OCM comunitaria (Reg. 1234/2007/CE e sue successive modificazioni) e dalla sua attuazione (d. lgs. 8.4.10 n. 61). In base a queste disposizioni, sono ora introdotte a livello comunitario, per i vini di qualità, le seguenti indicazioni:

  • DO/DOP (Denominazione d’Origine Protetta)
  • IG/IGP (Indicazione Geografica Protetta).

La OCM fa però salve, per ogni Paese, le menzioni tradizionali, che per l’Italia erano la DOCG, la DOC e la IGT, in ordine decrescente di importanza.

Tuttavia, gli aspetti legati alle indicazioni geografiche sono solo parzialmente rilevanti per il tema di questo intervento. Quello che è più evidente, infatti, è l’aspetto legato alle norme sulla etichettatura del prodotto.

Mentre per i prodotti alimentari, in generale, si applica il recente Reg. UE 1169/2011, il quale, all’art. 10, elenca le indicazioni obbligatorie sulle confezioni dei prodotti, che sono particolarmente ampie e rigorose, la materia dell’etichettatura dei vini è regolata dal Reg. CE 1234/07, dal Reg. CE 497/2008, dal Reg. CE 607/2009 e conseguentemente, in Italia, dal D. lgs. 8.4.10 n. 61 e, a livello regolamentare, dal decreto MIPAAF 13.8.12, poi modificato con decreti 16.9.13 e 24.7.14.

Ebbene, ove si cerchino in tale complesso sistema normativo le regole sulla etichettatura (art. 59 del Reg. 497/2008, artt. 49 segg. Reg. 607/2009) emerge immediatamente il fatto che non è in alcun modo contemplato che vengano specificati gli ingredienti del vino, né le informazioni nutrizionali, né, soprattutto, la presenza di additivi.

Ma vi è di più: l’art. 60 del Reg. 497/2008 stabilisce quali possano essere le indicazioni facoltative (tra le quali, ancora una volta, non rientra alcuna delle informazioni di cui sopra).

In altri termini: per il prodotto vino, non solo l’informazione (in altri casi persino eccessiva) sulle caratteristiche dell’alimento non è obbligatoria, ma è di fatto in molti casi vietato fornirla!

Appare veramente arduo spiegarsi il perché di tale impostazione normativa. In verità, nel mondo del vino, le prese di posizione a favore e contro l’indicazione degli ingredienti sono state numerose, specie negli Stati Uniti. Chi si oppone fa notare essenzialmente due argomenti: anzitutto, che l’elencazione degli ingredienti comporterebbe analisi costose ed imporrebbe etichette (e controetichette) più lunghe, il che potrebbe svantaggiare i piccoli produttori. Secondariamente, che nel caso del vino gli ingredienti usati nell’ottenimento del prodotto non coincidono con l’effettivo contenuto della bevanda, che è influenzato dai processi fermentativi e postfermentativi.

Se queste obiezioni hanno certamente un fondo di verità, ritengo da parte mia che esse non giustifichino l’atteggiamento del legislatore. Infatti, una concreta regolamentazione delle indicazioni obbligatorie che comprenda anche l’elenco e la quantità degli additivi usati nel processo di vinificazione (o quantomeno, dei più rilevanti tra di essi, come il metabisolfito di sodio, il carbonato di calcio e gli acidificanti) mi sembra pienamente rispondente all’interesse del consumatore alla corretta e completa informazione.

Se è vero che – come alcuni sostengono – questo potrebbe scoraggiare il consumo di vino, che potrebbe venir percepito come bevanda “poco naturale”, è anche vero che usare questo argomento come pretesto per non consentire – quando non vietare – indicazioni più complete in etichetta appare ipocrita.

Sarebbe dunque auspicabile un intervento (al momento, per la verità, apparentemente assai poco probabile) per rivedere l’intera materia dell’etichettatura dei prodotti agroalimentari ed enologici, che da un lato (nel caso dei primi) renda più chiaramente intelligibile al consumatore il contenuto del cibo, dall’altro (per i secondi) fornisca informazioni più complete sul contenuto e sui processi di vinificazione.

Solo in questo modo si potrà far sì che il complesso normativo e la conseguente informazione siano effettivamente corrispondenti all’interesse dei cittadini, e non si traducano in un vistoso condizionamento delle loro abitudini di consumo.